Agorà

IL CASO. La letteratura italiana? È nata a Padova...

Roberto Beretta giovedì 11 novembre 2010
La geografia è «l’occhio diritto della Storia, l’altro occhio suo è la cronologia». L’immagine – un po’ barocca, è vero – appartiene a tale Jacob Graberg, studioso svedese del primo Ottocento. Ma allora perché noi guardiamo il passato soltanto con l’occhio sinistro?Date. Secoli. Sequenze d’avvenimenti. Concatenazioni di cause ed effetti. Post hoc ergo propter hoc... Sì: checché ne diciamo, la storia noi l’affrontiamo in genere sotto una dimensione sola, quella temporale. Lo spazio invece ci sfugge, la mappa soccombe al calendario; la distanza geografica conta meno di quella temporale. Anche in letteratura; tant’è vero che i poeti si studiano secondo il secolo di nascita e il periodo cui appartengono, e non suddivisi (come pure in Italia sarebbe tutt’altro che banale) per regioni o addirittura città d’origine. Qualche indicazione in controtendenza in realtà c’è stata, per esempio con le opere di Carlo Dionisotti (accademico) o Giampaolo Dossena (divulgatore) sulla «geografia» dei nostri scrittori; ma certo ben più ciclopico s’annuncia ora l’Atlante della letteratura italiana, che va in libreria col primo di tre volumi («Dalle origini al Rinascimento») per la cura generale di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà e le edizioni Einaudi (pp. 860, euro 85). Solo qualche assaggio per stuzzicare un più robusto appetito, da esercitare su un menu fittissimo di dati e curiosità.Il primato di PadovaChi ha detto che la letteratura italiana è iniziata in Toscana? Finora nelle antologie si era arrivati – al massimo – ad anticipare Firenze e lo stilnovo con la cosiddetta «scuola siciliana». Per Pedullà, invece, «il centro culturalmente più vivace del periodo è Padova, fuori dall’area in cui il volgare italiano avrebbe dato di lì a qualche decennio le sue prove migliori». Solo gli specialisti conoscono Lovato Lovati o Albertino Mussato, eppure proprio da questi poeti-giuristi in riva al Brenta iniziò nel Duecento quell’umanesimo (ovviamente latino) che studiando i classici fornirà la spina dorsale alle origini della letteratura italiana. Non è un caso se Dante, Boccaccio e Petrarca vissero tutt’e tre per qualche tempo proprio a Padova...Genova città dei trovatoriOggi è difficile immaginarsi dei menestrelli nei carrugi del capoluogo ligure. Eppure proprio a Genova e dintorni la letteratura trobadorica ebbe la massima espansione italiana; del resto, la Provenza sta a due passi. I nomi sono trasparenti: Simone e Percivalle Doria, Bonifacio Calvo, il più noto Lanfranco Cigala... Ma, grazie anche al passaggio di trovatori provenzali nelle corti marchesali di Monferrato e di Saluzzo, lo sviluppo dei cantari dilagò poi in Piemonte (anche a Biandrate, presso Novara) e in Lunigiana presso i Malaspina, prima di spostarsi verso est, nelle terre «estensi» tra Verona e Mantova. Dove sorse il nostro massimo trovatore: Sordello da Goito.Gli allori dei «raccomandati»I coltissimi Petrarca, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Enea Silvio Piccolomini (poi papa Pio II); ma anche il canonico Mattia Lupi, il medico Paolo Goddi e addirittura il gioielliere (oggi sconosciuto) Girolamo Casio. Chi si scandalizza di certi Nobel per la letteratura un poco «casuali», dovrebbe analizzare le liste dei poeti «laureati» del Quattrocento italiano. 93 furono le «incoronazioni» tra 1431 e 1540, per quasi la metà decretate dagli imperatori, una su 5 dai papi (26 ebbero luogo a Roma) e il resto per volontà di comuni, signorie e accademie. Ebbene, gli allori cinsero sì le teste dei sommi – da Dante a Tasso (però postumo) – ma calarono pure sulle fronti di «raccomandati» dai potenti di turno: come Zanobi da Strada, omaggiato di corona poetica nel 1355 più per i servigi prestati alla famiglia degli Acciaiuoli che per i meriti di studioso e filologo.La peste dei letteratiFu l’epidemia peggiore dell’Occidente medievale; e quanti scrittori ci lasciarono le penne (non solo metaforicamente)... Se a Boccaccio la peste nera del 1348 fornì infatti la «cornice» per il capolavoro – le 10 giornate del Decamerone si svolgono appunto in tale circostanza – il morbo fu fatale per almeno altri 50 letterati italiani (su un totale di 240). Il cronista fiorentino Giovanni Villani; il figlio di Dante Alighieri, Iacopo; Sennuccio del Bene, amico letterato di Petrarca; i fratelli pittori senesi Ambrogio e Pietro Lorenzetti... La falce della morte mietè un quinto degli uomini di cultura contemporanei, cogliendo soprattutto a Firenze, a Bologna e appunto a Siena; Milano e Roma invece non vennero colpite, o poco.Ambasciator che porta pennaBei tempi, quando gli intellettuali facevano gli ambasciatori e non le comparse nei talk show; o forse la cosa non era così diversa... Ma insomma, uno degli impieghi più comuni dei letterati nel tardo medioevo fu appunto essere inviati dai propri signori o dai Comuni quali ambasciatori. Un po’ perché erano tra i pochi dotati della cultura necessaria, un po’ perché così almeno si sdebitavano presso i generosi mecenati. La palma in questa attività spetta ovviamente a Firenze, che in due secoli poté contare su messaggeri del calibro di Dante (spedito a Napoli e più volte a Roma) e Boccaccio (inviato fino in Tirolo), ma pure su Brunetto Latini, Giovanni Villani, Franco Sacchetti. Federico II dalla Sicilia si avvalse invece del fedele segretario Pier della Vigna per le delicate missioni soprattutto presso il papa, mentre il poeta Cino da Pistoia fu inviato a Firenze e a Roma per conto della Savoia. Lo stesso Petrarca farà viaggi diplomatici a Parigi, Praga e Venezia.Libri alla catenaPetrarca aveva avuto l’idea, ma non riuscì a realizzarla: costituire coi suoi 300 preziosi volumi una biblioteca pubblica a Venezia. I tempi divennero maturi qualche decennio più tardi. Nel 1444, da un lascito privato di 400 volumi, nacque la biblioteca pubblica annessa al convento di San Marco a Firenze: i libri erano incatenati ai banchi, ma l’accesso era libero. Forse l’istituzione fu preceduta solo dalla biblioteca di Castiglione Olona, piccola località del varesotto che però poteva contare sul mecenatismo del cardinale umanista Branda Castiglioni: si ha notizia della costruzione di una sala di lettura ivi nel 1431, ma non si conosce se fu mai funzionante. Un’altra biblioteca pubblica sorse per breve periodo a metà Quattrocento su iniziativa di un altro cardinale, Giordano Orsini, a Roma, mentre al romano collegio Capranica fin dal 1417 gli studenti potevano accedere a un fondo di manoscritti; la Vaticana risale invece al 1475: con 2500 titoli, era la più vasta d’Italia. Altre grandi biblioteche pubbliche (dai 700 ai mille volumi) ebbero sede nella Pavia dei Visconti, a San Marco di Venezia e nel Palazzo Ducale di Urbino.Botte da intellettualiIl decennio più «litigioso»? Tra 1450 e 1460. Almeno stando al numero di «invettive» tra i letterati italiani – ben 48 – di cui si è conservata copia. Uno dei più attaccabrighe appare senz’altro Poggio Bracciolini, che si scagliò sui colleghi da un capo all’altro della Penisola: contro Francesco Filelfo a Milano, contro Lorenzo Valla a Roma... Quest’ultimo non solo rispose agli attacchi, ma da parte sua menò fendenti contro il Panormita, Antonio da Rho e altri. Filelfo invece se la prese ben 13 volte con Cosimo de’ Medici, 12 con Bracciolini, 11 con Carlo Marsuppini, e via scalando. Né si trattava di conflitti leggeri: a volte si andava avanti per anni, a più riprese, e con termini violentissimi e sconci, da far arrossire anche i meno pudibondi... Alla faccia dell’«alta» cultura!I best seller del QuattrocentoLa Bibbia? La Divina Commedia? No: il libro in volgare italiano più stampato agli albori dell’invenzione di Gutenberg fu il «Fiore di Virtù», compilazione edificante attribuita a un frate del Trecento. Sono ben 57 le edizioni di incunaboli (così si chiamano le stampe ante 1499) che lo riguardano. Seguono la Bibbia in volgare (56 edizioni), alcune opere devozionali, un pratico «Formulario di epistole» (31), il «Canzoniere» di Petrarca (25); la «Commedia» arriva solo al quindicesimo posto, con 15 edizioni. Ma l’autore più stampato è senza dubbio Girolamo Savonarola, con ben 97 edizioni a suo nome; Boccaccio arriva a 49, compresi gli apocrifi, Petrarca a 38. Il povero Dante viene superato persino da un vescovo, Antonino da Firenze, autore di vari opuscoli sulla confessione.