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Cinema. La Guerra Fredda di Spielberg

Alessandra De Luca mercoledì 16 dicembre 2015
​C’è una cosa che l’avvocato James B. Donovan continua a ripetere quasi come un mantra: «Ogni persona è importante». Il legale in questione, protagonista dell’ultimo film di Steven Spielberg, Il ponte delle spie, in arrivo domani nelle nostre sale, è uno specialista in polizze assicurative, una brava persona di sani principi che crede nelle regole della Costituzione e nella legalità, prima ancora che nel patriottismo a tutti i costi. In pochissimi conoscono il suo nome e la sua storia, ma è a lui che nel 1957, in piena Guerra Fredda, durante la folle corsa agli armamenti, viene affidata la difesa d’ufficio di una spia russa, Rudolpf Abel, già condannato alla sedia elettrica dall’opinione pubblica. Il processo sarà dunque un’operazione di facciata per dimostrare che il democratico governo americano è in grado di garantire i diritti civili di chiunque, anche di chi è chiaramente colpevole. Solo che Donovan, inizialmente riluttante perché timoroso di non essere all’altezza del compito, prende il suo incarico molto seriamente e riesce a evitare la pena di morte al suo assistito, con il quale si è stabilito nel frattempo un rapporto di grande stima reciproca, con totale disappunto dei colleghi e familiari. La scelta di salvare Abel si rivelerà però strategicamente lungimirante e consentirà agli Usa di utilizzare la spia come merce di scambio per il giovane e inesperto soldato americano Francis Gary Powers, precipitato sul suolo sovietico a bordo del segretissimo aereo spia U-2 durante un volo di ricognizione oltre la Cortina di Ferro. Della consegna dei rispettivi prigionieri si occuperà in gran segreto lo stesso Donovan, battitore libero tra le macerie di una tetra Berlino post bellica, oppressa dalla neve, dalla confusione e dall’ambiguità politica, dalla presenza di violente gang di strada e di spie fuori controllo, dall’ombra del muro che sta per sfregiare la città.Il ponte delle spie comincia e finisce con due momenti di suspance, racchiuso tra un frenetico inseguimento alla Hitchcock tra le strade di New York e il momento dello scambio sul ponte di Glienicke, poi ribattezzato “il ponte delle spie”, messo in scena come un vero e proprio duello western (nella neve, come il prossimo western di Tarantino). Spielberg utilizza la più classica e solida delle forme cinematografiche per tornare a riflettere sulla grande Storia, come già in L’impero del sole, Schindler’s List, Il soldato Ryan, Amistad, Munich, War Horse e Lincoln, ma anche Flags of Our Fathers ,Lettere di Iwo Jima e le due serie televisive sulla Seconda guerra mondiale, Band of Brothers e The Pacificic, di cui è stato produttore. L’obiettivo del regista non è solo rievocare un difficile momento storico rendendo omaggio ai racconti di suo padre che in Russia durante la Guerra Fredda vide i resti dell’aereo di Powell esposti sulla Piazza Rossa. Il vero scopo del suo cinema negli ultimi anni è quello di aprire con il pubblico un dibattito sul presente, e questa volta sotto la lente ci sono anche gli errori della politica estera americana e di quella di Putin, i passi falsi e anticostituzionali fatti in nome della guerra al terrorismo, la cultura della paura e del sospetto. Tutte le persone sono importanti, tutti hanno il diritto a essere difesi, ripete Donovan, anche gli immigrati clandestini, anche chi si è macchiato di un reato. Allora come oggi l’impressione era quella di essere sull’orlo di una Terza guerra mondiale. Per questo il regista torna su quel momento cruciale, carico di tensioni, potenzialmente esplosivo, un momento però dove il rispetto delle regole («la chiamiamo Costituzione, ed è ciò che ci rende americani», dice l’avvocato), buon senso, intelligenza e una grande dose di umanità preservarono alcune nazioni da disastri peggiori. Donovan poi, le cui grandi capacità diplomatiche furono ufficialmente riconosciute dal proprio Paese, venne utilizzato anche dal presidente Kennedy per il rilascio di 1.163 prigionieri nella Baia dei Porci. Oltre ai fatti, Spielberg, che usa la pellicola per ottenere il look da film noir anni Quaranta, ricostruisce magistralmente le atmosfere di quegli anni, rende palpabile l’aria malsana che si respirava a Berlino, restituisce luci e colori, stoffe e arredi dei tristi uffici della Germania dell’Est, le sabbie mobili in cui si arenava la diplomazia, gli ingarbugliamenti della politica, i grossolani trucchi per ingannare gli avversari. E se l’attore teatrale Mark Rylance offre una straordinaria performance nei panni della spia venuta dal freddo, Tom Hanks, per la quarta volta diretto dall’amico Steven, raccoglie con il suo Donovan l’eredità dei personaggi interpretati da James Stewart e Cary Grant. Ad Hanks e Rylance, che incarnano le anime nobili di questa storia, sono affidati i dialoghi di più illuminanti del film scritto da Matt Charman con la briosa collaborazione dei fratelli Coen che hanno aggiunto una buona dose di umorismo alla storia. Ed è proprio la parola, come già in Lincoln, la grande protagonista di questa vicenda, perché di parole e informazioni era fatta la Guerra Fredda e perché parola fa rima con negoziazione e persuasione, nemiche di guerra e barbarie. E nel cinema di Spielberg, da guardare e da ascoltare con attenzione, la parola diventa, soprattutto negli ultimi anni, infallibile antidoto contro rumori, frastuoni, effetti speciali di tanti film che oggi ci buttano in faccia la realtà senza darci il tempo di riflettere.