Scenari. Guerre pace non sono mai fatalità, ma sempre scelta politica
Una manifestazione per la pace a Roma
Nel luglio 1932 Albert Einstein scrisse una famosa lettera a Sigmund Freud. Lo scienziato si rivolse al padre della psicoanalisi per chiedergli se le sue scoperte potessero offrire soluzioni capaci di «liberare gli uomini della fatalità della guerra». Con qualche esitazione Freud rispose al celebre fisico e gli confessò di non nutrire grandi speranze sulla possibilità di «sopprimere le tendenze aggressive degli uomini». Gli espose in modo sommario anche la tesi secondo la quale negli esseri umani vi era, accanto alla pulsione vitale, una sorta di “pulsione di morte”. Ed era proprio quella componente – in realtà piuttosto oscura nella descrizione di Freud – a indurlo al pessimismo.
Quella che Einstein pose a Freud è forse la domanda principale che è costretto a porsi chi studia i fenomeni politici. E non è sorprendente che riemerga ciclicamente. Norberto Bobbio ricostruì in diverse occasioni le differenti modalità con cui nella storia del pensiero occidentale la guerra era stata concepita, spiegata e giustificata. Lo fece innanzitutto in un corso universitario del 1964-1965 – pubblicato ora con il titolo Lezioni sulla guerra e sulla pace a cura di Tommaso Greco (Laterza, pagine 255, euro 20,00) – che rappresenta il primo episodio di un impegno pacifista proseguito in seguito (e culminato nel volume Il problema della guerra e le vie della pace, uscito nel 1979). Con la consueta acribia analitica, Bobbio esaminava le diverse dottrine della “guerra giusta”, le filosofie della guerra e le teorie positivistiche della seconda metà dell’Ottocento. Ma prendeva in esame anche le varianti del pacifismo, che avevano cercato la soluzione al problema della guerra nel divieto delle armi, nel cambiamento morale degli esseri umani e nella costruzione di uno Stato mondiale. Ed era proprio verso quest’ultimo pacifismo “istituzionale” che vedeva una soluzione per regolare i conflitti.
La conclusione principale cui Bobbio perveniva riguardava però il rischio – tutt’altro che irrealistico – di una guerra nucleare. Perché era proprio la novità delle armi atomiche a rendere del tutto obsolete le tradizionali teorie della guerra. Innanzitutto, perché era evidente che la guerra non era scomparsa con l’avvento delle società industriali, come avevano invece confidato alcuni teorici liberali. E in secondo luogo, perché era impossibile vedere in una guerra nucleare un fattore capace di qualsiasi genere di progresso. Un simile quadro non doveva però indirizzare verso un totale pessimismo. «Coloro che oggi si preoccupano di trovare una soluzione – osservava al termine delle sue lezioni – credono che la salvezza sia, ancora una volta, il risultato di una ricerca razionale e di uno sforzo consapevole, e operano di conseguenza».
Non è sorprendente che la domanda al centro del carteggio tra Einstein e Freud sia prepotentemente tornata dopo il 24 febbraio 2022 e l’aggressione russa dell’Ucraina. È in fondo questo stesso quesito che Luigi Bonanate affronta in La guerra e il mondo. Filosofia, storia, politica (Carocci, pagine 199, euro 22,00), proseguendo l’itinerario indicato da Bobbio. Uno dei bersagli contro cui si indirizzano le considerazioni del politologo è proprio l’idea che ispirava il pessimismo di Freud. E cioè la convinzione che la guerra sia in fondo inevitabile perché intrinseca alla “natura umana”. Una simile affermazione secondo Bonanate rimane indimostrabile, ma, soprattutto, impedisce di comprendere perché le singole guerre scoppiano. La guerra, osserva, «non è un evento naturale né un caso», bensì «un evento razionale voluto da volontà (una o tante) che intendono distruggere, uccidere, conquistare persone e cose desiderate». Per capire la guerra, bisogna dunque guardare alla politica che l’ha provocata. Se la guerra, come scriveva Clausewitz, è «la prosecuzione della politica con altri mezzi», è anche necessario ricordare che non tutta la politica conduce alla guerra. Tanto che la vera antitesi della guerra deve essere considerata non la pace, bensì proprio la politica. O meglio quella politica che è in grado di interrompere il flusso della violenza e conseguire la pace.
Alla vecchia domanda di Einstein non sfugge neppure Fréderic Gros nel suo denso volumetto Perché la guerra? (Nottetempo, pagine 145, euro 16,00). Lo studioso francese, curatore delle opere di Michel Foucault nella Pléiade, ricostruisce innanzitutto le sequenze di una trasformazione che, a partire dal 1945, ci ha condotti dapprima a una “Guerra fredda” ad alto tasso ideologico e poi alle “guerre globali”, inaugurate dall’11 settembre, giungendo infine alle contemporanee “guerre di caotizzazione”, seguite alle primavere arabe. A differenza delle guerre tradizionali, tali nuovi conflitti non sono mirati al raggiungimento della pace, ma allo sfruttamento dei “profitti della catastrofe”. E sono per molti versi «sia simbolo che sintomo della nostra insormontabile difficoltà a costruire un futuro».
Nel corso di questo mutamento, cambiano tanto le modalità di giustificazione della guerra, quanto i nessi tra conflitto esterno e coesione interna della comunità politica. Ma ciò che davvero cambia rispetto al passato, come aveva sottolineato Bobbio, è la caduta di qualsiasi giustificazione storicistica della violenza bellica. «Il XX secolo – scrive infatti Gros – ha reso desueta ogni utopia progressista e consolatoria secondo cui i morti in guerra servirebbero a un bene superiore». Ed è anche necessario diffidare della spiegazione freudiana, secondo cui la guerra sarebbe da imputare alla “natura” (immodificabile) degli esseri umani. Perché, osserva riprendendo le classiche suggestioni di Kant e Spinoza, «la natura non è chiusura dell’essere su se stesso, ma ciò che manca alla propria perfezione». E se gli Stati si fanno la guerra, conclude allora lo studioso francese, è perché fra loro «non c’è abbastanza natura», ma «troppi calcoli miserabili, basse ambizioni, previsioni meschine».