Agorà

Letteratura. La «geografia» di mio padre, Luigi Santucci

Emma Santucci martedì 11 dicembre 2018

Lo scrittore Luigi Santucci (Effigie)

Lo scorso 11 novembre Luigi Santucci, mio padre, avrebbe compiuto cento anni. Di questi tempi non è un traguardo anagrafico impensabile, anzi. Ma mio padre non se lo augurava, turbato com’era all’idea di affacciarsi sul XXI secolo, con i relativi (parole sue) «cataclismi etnici, coi vergognosi progetti di clonazioni e uomini in fotocopie, con i supremi trionfi d’imbecillità a cui i media voteranno l’uman genere...». E in una sorta di testamento spirituale destinato a noi figli scriveva: «Il mio voto, il mio auspicio è che in questo secolo voi possiate salvarvi, conservare almeno in parte quella civiltà che vi preservi dalla bestializzazione che già da tempo la tv e ora il cosiddetto internet ci profilano».

Ma credo che, nonostante questo suo un po’ cinico pessimismo dell’ultima ora, oggi avrebbe sinceramente apprezzato l’iniziativa del nostro Consiglio comunale di Milano di dedicargli un fazzoletto di verde milanese, incorniciato dalla piazza Tricolore, nel quartiere di Monforte.

Un nome, 'tricolore', forse poco adatto a lui che, se si esclude la parentesi della lotta partigiana, non è mai stato un soggetto patriottico. E se si è sentito tale, lo è stato di certo più per dare un tributo a quell’Unione Europea ancora in embrione che aveva visto nascere accanto all’amico Luciano Bolis, un innamorato antesignano del progetto europeista, di cui aveva da subito condiviso l’entusiasmo per quel sogno allora apparentemente irrealizzabile.

Temo quindi, o meglio ne ho la certezza, che si sarebbe molto rattristato in questi mesi, nel percepire tutti gli scricchiolii che annunciano il rischio di un possibile frantumarsi di quella nobile 'utopia' che con tanta fatica e tenacia è, a un certo punto, finalmente diventata una 'realtà' politica. Il suo è stato invece un vibrante patriottismo sentimentale, verso tutte quelle località che ha più intensamente amato: dalle Dolomiti a Venezia, alla Brianza, al Lago di Como. E qui, in particolare, il suo mai più lasciato buen retiro, Guello di Bellagio, il luogo dove si coagulavano per lui tutti i valori più intimi: la scrittura, la famiglia, l’amicizia, prima fra tutte quella col vicino di casa Gianfranco Ravasi, oggi cardinale, con cui tesseva quotidianamente la tela del colloquio intimo e fraterno, ma anche teologico e non di rado escatologico.

E poi, naturalmente Milano. Ma, procedendo attraverso una geografia fatta a centri concentrici, di certo c’era questo quartiere milanese di Monforte, dentro al quale si trovava la sua casa di via Donizetti. Una casa così amata da provare quasi un certo smarrimento spirituale nello staccarsi anche per pochi giorni da lei: una sorta di 'mal di guscio', come gli piaceva chiamarlo... È nato, dicevo, l’11 novembre del 1918, proprio il giorno dell’armistizio, cioè nella data precisa in cui la cosiddetta Grande Guerra chiudeva il suo nefando corso e si inaugurava il tempo della pace. Forse senza quella coincidenza di calendario mio padre non sarebbe stato così testardamente attratto dai valori dall’armonia e dalla concordia, che, caso vuole, è giusto il nome del corso che da piazza Tricolore prende le mosse.

Ma questa piazza ha certamente avuto per lui soprattutto un significato affettivo, legato alla sua anagrafe. Al civico numero 5 dell’adiacente viale Piave (un tempo viale Monforte) mio padre ha infatti trascorso la sua infanzia: la più sentita, la più coltivata delle sue mitologie. Come lo descriveva nell’«Orfeo in Paradiso», un bel viale alberato dove aveva abitato per trent’anni con sua madre e lungo il quale aveva passeggiato tante volte con lei. Su quel marciapiede vedeva sé bambino rincasare reggendo la bottiglia del latte, suo padre avviarsi all’ufficio con una borsa sotto il braccio.

Vi erano le botteghe, ancora dal sapore ottocentesco, dove gli piaceva indugiare e intrattenersi con i negozianti, personaggi di una sorta di presepe laico che aveva fatto da sfondo poetico alla sua vita di bambino e di ragazzino. Ora non ci sono più, naturalmente. È rimasto però il negozio di fiori, nella piazza, lo stesso in cui entrava a comprare le violette da portare a sua madre ogni 13 maggio, giorno di sant’Emma.

Credo che avere un giardino dedicato, per quanto piccolo, con il suo verde incastonato tra i palazzi svettanti intorno alla piazza e una panchina dove qualcuno possa sedersi e avere un momento di pace e di meditazione all’ombra di un albero, ascoltando il familiare gocciolìo di una delle ultime vedovelle ancora in circolazione, sarebbe per mio padre la preziosa testimonianza di quella civiltà interiore, di quella aristocrazia di spirito alla quale si è sempre sforzato di formarci, quale unico e irrinunciabile antidoto agli incombenti 'malanni' del XXI secolo.