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Firenze. Agli Uffizi la forza dolce di Joana Vasconcelos

Alessandro Beltrami venerdì 6 ottobre 2023

Joana Vasconcelos, “Royal Valkyrie” (2012) nella Tribuna degli Uffizi

Uno dei modi per valutare la forza di un’opera d’arte – e più in generale il lavoro di un artista – è osservare il modo in cui interagisce con uno spazio a sua volta fortemente connotato ma che non le è proprio fin dall’origine. Assodato che l’opera “debole” non avrà nessuna interazione reale con il luogo al di là di godere di una generica atmosfera, sono due le possibilità “forti”: trasformare lo spazio o abitarlo.

La prima è una forza che si proietta dall’opera sul contesto fino a cambiarne segno e prospettiva. La seconda è una forza dolce, meno assertiva ma non meno potente, che preferisce una pulsazione profonda e costante all’esplosione. Un’opera di questo tipo sembrerà nata per quel luogo anche se la sua origine è remota e lunga la sua storia. Il lavoro di Joana Vasconcelos, artista portoghese tra le protagoniste della scena internazionale (più volte in Biennale, protagonista nel 2012 di una grande mostra a Versailles e nel 2018 al Guggenheim di Bilbao, firma di numerose installazioni monumentali come la recentissima Wedding Cake in ceramica nel parco della residenza vittoriana del barone Ferdinand de Rothschild) rientra nel secondo caso, e la verifica può essere effettuata visitando la mostra aperta in questi giorni tra Uffizi e Palazzo Pitti ("Between Sky and Heart", fino al 14 gennaio).

Curata dal direttore delle Gallerie Eike Schmidt e da Demetrio Paparoni, vede la sceltissima collocazione di soli tre pezzi in altrettanti differenti ambienti, tutti simbolici: la Sala Bianca e la Sala di Bona a Palazzo Pitti e la Tribuna degli Uffizi. Tre opere monumentali, molto diverse tra loro, che coprono le diverse linee espressive di Vasconcelos ma accomunate da una poetica che combina ironia e un gioioso, ma non ingenuo, senso di libertà.

Nella Sala Bianca, sede storica delle sfilate di moda di Palazo Pitti, è installata Marilyn (2011), scultura in cui l’assemblaggio di pentole e coperchi in acciaio specchiante si traduce nell’immagine gigantesca di due grandi sandali a tacco alto simili a quelli indossati dalla Monroe nel film Quando la moglie è in vacanza. Il lavoro sconta forse un eccesso di linearità nell’affrontare gli stereotipi di genere, tra “casalinghità” e seduzione. Va però sottolineato il modo in cui i candidi stucchi neoclassici e le luci delle “lumiere” datate 1785 della sala da ballo del granduca Pietro Leopoldo vengono riverberati dalle singole superfici, trasformando – ed è la vera seduzione operata dall’artista, capace di ripensare il materiale in modo aperto – l’elemento comune e quotidiano in prezioso e spettacolare.

Joana Vasconcelos, “Marylin” a Palazzo Pitti - Lionel Balteiro / Atelier Joana Vasconcelos

Cambia la scala ma resta la qualità della presenza in Happy Family, del 2006, una sorta di presepe laico che reinterpreta (ma senza tradire) il tema cristiano della santa famiglia. Due giovani genitori, con le forme di una Flora e di un Bacco rinascimentali, cullano un bambolottobambino. Vasconcelos utilizza delle statue in cemento “da giardino”, le ridipinge, le avvolge in una morbida seconda pelle di uncinetto e ricamo. Non solo è una esplosione di felicità domestica, ma questo nucleo familiare si ritrova perfettamente a casa nel salone, bilanciandone l’aura aulica e i temi bellici. I colori riumanizzano le forme di questo classicismo da mercatino, le quali a loro volta si rispecchiano in quelle affrescate sulle pareti da Bernardino Poccetti a inizio Seicento, mentre la rete di crochet trasfigura la banalità della natura industriale dell’immagine in chiave allo stesso tempo intima ed esuberante.

Vasconcelos non teme il kitsch, lo cavalca anzi senza moralismi come cifra della nostra epoca e come forma di inconsapevole memoria, valorizzandone l’aspetto più inconfessabile: la capacità di stimolare un piacere assurdo e goloso. Tutto questo è amplificato nel più impegnativo dei tre interventi, per il quale va dato atto al coraggio dei curatori. La Tribuna ottagonale venne realizre zata fra il 1581 e il 1583 dall’architetto Bernardo Buontalenti come cuore delle collezioni medicee. Il volume è ora abitato dalla gigantesca fluttuante Royal Valkyrie (2012), una figura esuberante, morbida e tentacolare realizzata attraverso un complesso lavoro di patchwork e ricamo. Nonostante la mole (e va segnalato il complesso e leggerissimo sistema installativo), la scultura si adagia con delicatezza nello spazio, ne condivide la gravità e il tempo.

La Valchiria degli Uffizi nella sua estrosità appartiene “naturalmente” a uno spazio nato come wunderkammer, progettato per simboleggiare i quattro elementi del cosmo e un tempo incrostato di 5.780 conchiglie di madreperla giunte appositamente dall’Oceano Indiano. Nella mitologia norrena le Valchirie erano dee guerriere che calavano dal cielo per raccogliere le anime degli eroi morti in battaglia e portarle nel Valhalla. In Vasconcelos scompare il coté militare, resta il mistero dell’apparizione di una presenza a suo modo angelica, tutt’altro che incorporea, arcaicamente materna.

Come si diceva, questa dialettica di duro e morbido fa parte della poetica unitaria di Vasconcelos: «Il confronto tra le sculture pensili fatte di stoffe imbottite – scrive Paparoni – e quelle ottenute con oggetti d’uso comune, come pentole o bottiglie o telefoni, dimostra che ci troviamo dinanzi a due strade diverse ma non antitetiche sul piano formale e costruttivo. Nelle sculture i cui soggetti e materiali fanno parte della nostra routine quotidiana emerge l’orientamento verso una riflessione critica sul presente, con particolare attenzione alla condizione femminile. Nelle voluminose installazioni pensili realizzate con stoffe e passamanerie, a prevalere è invece la dimensione mitica, anche questa però trasposta in chiave etico-politica. Qualunque sia il linguaggio utilizzato, le singole opere sono accomunate da una tensione morale sempre orientata al rispetto delle specificità dell’altro ».

Le Valchirie di Vasconcelos appaiono dunque come l’incarnazione migliore di questa “forza dolce” che per l’artista è una peculiarità della natura femminile e che nei suoi lavori si concretizza in uno slancio gioioso e vitale, raro nella contemporaneità e quindi oltremodo prezioso. Un’arte generosa perché festiva, traduzione visibile e tattile di una autentica dimensione affettiva e spirituale.