Scenari. Julia Kristeva: la forza dell'Europa è sapersi interrogare
Julia Kristeva
Pubblichiamo una anticipazione dal contributo di Julia Kristeva, figura intellettuale di primo piano della scena internazionale, al nuovo numero di “Vita e Pensiero”, il bimestrale culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in uscita giovedì prossimo. Il testo fa parte della sezione Focus insieme al contributo del filosofo Jean–Luc Nancy “Islam misconosciuto? Rileggiamo la storia” e l’analisi dello storico dell’età contemporanea Marco Lavopa “Incarnare lo «spirito europeo»: la vera sfida per la Chiesa”. Nella sezione Frontiere i testi di Milena Santerini (“I mille volti del neo–antisemitismo”), Riccardo Redaelli (“Nuovo «torneo delle ombre» per vecchie glorie imperiali” su Russia e Turchia nello scenario mediorinetale), Tim Parks (“Successo e fragilità della Corona inglese”). L’intruso del mese è lo scrittore Nicola Lagioia con “Vangelo e letteratura: un itinerario possibile”.
Cittadina europea, di nazionalità francese, di origine bulgara e americana di adozione, non sono insensibile alle critiche amare, ma avverto anche il desiderio dell’Europa e della sua cultura. Crudelmente delusi dalla politica, astensionisti ostinati, gli italiani, i greci, i polacchi e anche i francesi non hanno però messo in discussione la loro appartenenza alla cultura europea: si “sentono” europei. Che cosa significa questo sentimento, evidente al punto che la cultura nel Trattato di Roma neppure è citata? Ora, è la cultura europea che può essere la via maestra per condurre le nazioni a un’Europa più solida. In contrasto con un certo culto dell’identità, la cultura europea non cessa di svelare un paradosso: esiste un’identità – la mia, la nostra – ma è senza fine costruibile e decostruibile. Alla domanda “chi sono io?”, la migliore risposta europea non è, in tutta evidenza, la certezza, ma l’amore per il punto interrogativo. Dopo il cedimento ai dogmi identitari fino ai crimini su grande scala, sta emergendo un “noi” europeo. È possibile assumere il patrimonio europeo ripensandolo come un antidoto ai ripiegamenti identitari: i nostri e quelli di qualsiasi provenienza. È un atteggiamento che troviamo espresso nella parola del Dio ebraico Ehyeh asher ehyeh( Es 3,14), ripresa da Gesù (Gv 18,5): un’identità senza definizione, che rinvia l’io a un irrappresentabile, eterno ritorno sul suo essere stesso.
Io la percepisco diversamente, nel dialogo silenzioso, secondo Platone, del Me che pensa con se stesso, sempre “due–in–uno”, e il cui pensiero non fornisce una risposta, ma disaggrega. Nella philía politikésecondo Aristotele, che annuncia lo spazio sociale e un progetto politico, facendo appello alla memoria singolare e alla biografi a di ognuno. Nel viaggio, come lo intende sant’Agostino, per il quale esiste una sola patria, precisamente quella del viaggio: In via, in patria. Nei Saggi di Montaigne, che consacrano la polifonia identitaria del Me: «Noi siamo tutti pezzi, e di un insieme così informe e vario, che ogni brano, ogni momento fa la sua parte». Nel Cogito di Cartesio, dove io comprendo che io sono soltanto perché penso. Ma che cos’è il pensare? È l’atteggiamento che, ancora, mi parla nella rivolta di Faust secondo Goethe: «Sono lo spirito che nega sempre». Nella «analisi senza fine» di Freud: «Là dov’ero, devo addivenire». Nelle stravaganti e delicate innovazioni delle arti e della letteratura della modernità… Senza voler enumerare tutte le fonti di questa identità interrogante, ricordiamo comunque che un costante interrogarsi può anche volgersi in dubbio corrosivo e in odio di sé: un’autodistruttività da cui l’Europa è lungi dall’essersi sempre cautelata.
Spesso si riduce questo patrimonio dell’identità a una questione di “tolleranza” permissiva. La tolleranza, però, è solo il grado zero dell’interrogarsi, che non si limita alla generosa accoglienza degli altri, anzi li invita a mettersi a loro volta in questione: a portare la cultura dell’indagine e del dialogo in momenti d’incontro in cui tutti i partecipanti siano pronti a problematizzare. Non c’è fobia nell’interrogarsi reciproco, ma una lucidità infinita, unica condizione posta al vivere–insieme. L’identità così intesa può sfociare su un’identità plurale: il multilinguismo del nuovo cittadino europeo. (...) Tra le numerose cause che portano all’attuale malessere, ce n’è una che le politiche passano spesso sotto silenzio: mi riferisco al disconoscimento che pesa su quello che chiamerei un “bisogno di credere” prereligioso e prepolitico universale, inerente agli esseri parlanti quali noi siamo e che si esprime come una “malattia d’idealità” specifica dell’adolescente. A differenza del bambino curioso e pronto al gioco, in cerca del piacere del divertimento e che prova a capire “da dove viene”, l’adolescente è più un credente che un cercatore: ha bisogno di credere a ideali per andare al di là dei propri genitori, separarsene e superare anche se stesso.
Ma la delusione conduce questa malattia d’idealità alla distruzione e all’autodistruzione, in assenza di esaltazione o attraverso di essa: da una parte, la tossicomania, l’anoressia, il vandalismo; dall’altra, la corsa ai dogmi estremisti dell’islam politico. Idealismo e nichilismo: in questa malattia di “idealità” che agita la gioventù, e con essa il mondo, convivono l’ebbrezza di non possedere valori e il martirio dell’assoluto paradisiaco. L’Europa è alle prese con una sfida storica. Saprà affrontare questa crisi del credere che il coperchio della religione non riesce più a trattenere? Il terribile caos legato alla distruzione della capacità di pensare e di associarsi che il tandem nichilismo–fanatismo instaura in diverse parti del mondo ha a che vedere con il fondamento stesso del legame tra gli esseri umani. È la concezione dell’umano forgiata al crocevia greco–giudaico– cristiano, con innesto musulmano, è questa inquietudine di universalità, singolare e da condividere, che pare minacciata. L’angoscia che in questi tempi decisivi blocca l’Europa esprime l’incertezza davanti a tale sfida. All’incrocio tra cristianesimo, giudaismo e islam, l’Europa è chiamata a gettare passerelle fra i tre monoteismi. Di più. Assurta da due secoli a punta avanzata della secolarizzazione, l’Europa è il luogo per eccellenza che potrebbe e dovrebbe portare chiarezza nel bisogno di credere. Ma i Lumi, nella loro precipitazione a combattere l’oscurantismo, ne hanno trascurato e sottostimato la potenza.
A partire dalle suffragette e passando per Marie Curie, Rosa Luxembourg, Simone Weil e Simone de Beauvoir, l’emancipazione delle donne, attraverso la creatività e la lotta per i diritti politici, economici e sociali, che prosegue fino a oggi, offre un terreno federatore alle diversità nazionali, religiose e politiche delle cittadine europee che sfidano l’oscurantismo delle tradizioni e delle religioni fondamentaliste. Questo tratto distintivo della cultura europea è di ispirazione e sostegno anche alle donne del mondo intero, nella loro aspirazione alla cultura e all’emancipazione, non unicamente come scelta, ma come superamento di sé che anima le lotte femministe sul nostro continente. Davanti a una politica bloccata dalla finanza e dall’iperconnessione, e contro la declinologia imperante e l’autodistruzione ecologica, lo spazio culturale europeo potrebbe essere una risposta audace. Forse la sola in grado di prendere sul serio la complessità della condizione umana nel suo insieme, le lezioni della sua memoria e i rischi delle sue libertà.
(Traduzione di Pier Maria Mazzola)