Con la liquidazione della cornice e del concetto di bellezza qualunque oggetto rischia di essere considerato, in quanto tale o perché formato da mano umana, un’opera artistica. L’arte contemporanea sperimenta l’inaridimento delle proprie fonti di ispirazione ma contende anche il posto alla religione come nuova idolatria. Il libro del filosofo e gesuita Paul Valadier I sentieri della bellezza. Arte, morale e religione
, appena edito da Edb (pp. 176, euro 18,50), dal quale anticipiamo alcune riflessioni sull’orrore e il brutto nell’arte novecentesca, si interroga sulla vitalità delle arti di oggi senza cedere a pensieri pessimistici e apocalittici. E contesta sia i profeti del nuovo hegelismo della «morte dell’arte» sia la facile costatazione che nell’arte non c’è più spazio per la bellezza.Ogni arte è impregnata dello spirito dell’epoca, e forse gli artisti sono più sensibili di altri, non soltanto a un’atmosfera, ma alle grandi tragedie che segnano l’umanità. L’arte contemporanea come potrebbe svilupparsi dimenticando o ignorando gli orrori del XX secolo? L’Olocausto funge da simbolo che condensa tutte le carneficine che, dalla Prima guerra mondiale fino alla rivoluzione culturale cinese e al genocidio perpetrato contro gli Armeni e più recentemente dai Khmer Rossi, furono uno dei tratti di questo tempo. E probabilmente non si tratta di una parentesi che si sarebbe chiusa dopo il crollo delle ideologie o la fine (pretesa) delle grandi narrazioni. I terrorismi sorti in maniera virulenta all’inizio del XXI secolo non sono di buon augurio per il futuro. Di conseguenza, per parodiare Jankélévitch parlando del perdono, l’arte non è forse morta nei campi della morte?È vero che tutta una parte non trascurabile dell’arte contemporanea è segnata indelebilmente dagli orrori di questo secolo. Le dieci monumentali tappezzerie di Jean Lurçat,
Il canto del mondo (1959-1965, ad Angers), impregnate del ricordo di Nagasaki e di Hiroshima – non si può dimenticare che per intraprendere la sua grande opera Lurçat fu profondamente motivato dalla sua scoperta dell’
Apocalisse di Angers (XV secolo) che egli considerava uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi – vogliono forse dimostrare un ottimismo che dà alla scienza e all’uomo la certezza di un avvenire migliore; ma tutto sommato, l’artista, anche solo per il nero che domina nelle tappezzerie e attorno, attesta una tendenza piuttosto oscura, dove gli elementi cosmici spesso sezionati costituiscono altrettante minacce per l’uomo. Lugubre e terribile “canto del mondo” dove si manifesta l’ambiguità delle attuali esaltazioni delle scienze: ne andiamo fieri ma al tempo stesso esse sono temute in un mondo in cui, alla fine, l’uomo è terribilmente solo e minacciato. Il nero avrà il sopravvento? I volti sfigurati o aspirati da tazze di gabinetto in Francis Bacon sono anch’essi, a loro modo, quelli dei torturati e degli esclusi della terra. L’attrattiva per la bruttezza, il sordido o il morboso non trova forse qui la sua origine, quasi ossessiva per alcuni (Thomas Bernhard nel teatro)?Ma forse occorre ancora più talento per dipingere l’orrore e resistere al contempo a derive e a un abbandono all’indistinto o alla compiacenza acritica. Ora, prima di parlare di declino, non si dovrebbe ammettere che ciò che manca di più è il talento, l’inventività, e persino il genio, per non restare invischiati in quel che si vorrebbe denunciare? E qui ancora si osserva che per strappare un’opera dal peggio occorre saper mantenere una distanza. Simile distanza appare ancora nel
Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, ma che dire di
Bagatelle per un massacro e altri testi antisemiti pieni di odio? Questa buona distanza è presente dappertutto nell’opera pittorica di Bacon? Nessuno infatti gioca impunemente con l’orrore, ma rischia di esserne egli stesso sedotto e divenirne quindi complice. A questo proposito, non basta proclamare il carattere protestatario dell’arte quando molto spesso la protesta è soltanto turpitudine esercitata con altri espedienti, ma pur sempre turpitudine. Bisogna anche aggiungere che se è vero che l’arte è morta nei campi della morte, ciò significherebbe che i carnefici (Hitler, Stalin, Mao, Pol Pot...) hanno vinto e annientato le potenze creatrici umane. L’inumanità avrebbe avuto ragione dell’umanità. Ora, non si può abdicare così in fretta in favore della malvagità umana e dar credito alle sue pseudovittorie. Sarebbe del resto disprezzare gli innumerevoli “giusti” che hanno saputo resistere, lottare, conservare la loro dignità sino alla fine, anche nelle umiliazioni e la morte. Forse bisogna persino ammettere che i più alti vertici dell’arte recente si trovano in opere che hanno tratto la loro ispirazione dagli orrori del secolo, ma trasfigurandoli e appunto per questo denunciandoli in modo molto più radicale che non tramite le lamentele o il fascino per la bruttezza e l’ignobile. Schönberg non rende forse testimonianza di questa tragicità senza nome in
Un sopravvissuto di Varsavia (opus 46, del 1947) e in tante altre opere? A un livello diverso, gli scritti di Etty Hillesum (
Diario e lettere, 1941-1943), quelli di Vasilij Grossman (
Vita e destino, 1959) o, più vicino a noi, la testimonianza di Ingrid Betancourt, spiccano perché mettono a nudo la barbarie dal volto umano-disumano.La situazione ambigua appena descritta a grandi tratti può provocare delle prese di posizioni radicali circa la fine dell’arte. Uno dei teorici più influenti in questa materia è l’americano Arthur Danto; egli non dichiara “la fine dell’arte”, bensì sostiene che per quanto riguarda le arti visive saremmo entrati in una “prospettiva post-storica”. Sarebbe finita la tendenza a tracciare una linea evolutiva progressiva, secondo una narrazione costruita in sequenze, spezzate da spiriti d’avanguardia talmente inventivi da annullare o invalidare le prospettive anteriori, benché queste rotture possano iscriversi in una storia di lunga durata. Basta ascoltare certe guide di museo per constatare fino a che punto questa ideologia della rottura domina le spiegazioni: si sente dire spesso che ogni pittore importante apporta una visione rivoluzionaria rispetto ai suoi predecessori; ovviamente non può essere che incompreso; non ha un radicamento nelle tradizioni pittoriche poiché inaugura quasi in assoluto un nuovo approccio; tuttavia si è così operato un indubbio progresso (?) ecc. Se c’è una fine secondo Danto, è quella della “storia dell’arte” alla maniera occidentale di cui abbiamo appena ricordato la presentazione divulgativa. «L’arte non è più possibile in quanto evoluzione storica progressiva», scrive l’autore che rivendica del resto per se stesso l’identità di
new-born hegelian, strizzatina d’occhio ironica ai born-again dei fondamentalisti protestanti.Hegelianismo della fine di una certa storia dove le età s’incastrano le une nelle altre malgrado le rotture, poiché ormai, e qui l’opera di Andy Warhol è presa come illustrazione più rilevante, noi non possiamo più fidarci del visibile, di ciò che l’occhio vede.Diventa illusorio distinguere un oggetto appartenente all’arte da un altro che le sarebbe estraneo. È ciò che Danto chiama “il Brillo Box”. Le linee di demarcazione scompaiono: una foto di Marilyn Monroe o di Jackie Kennedy riprodotta indefinitamente con leggere e insensibili variazioni, è arte, o semplicemente un fenomeno curioso, interessante, originale, inventivo?Verosimilmente si è lontani dalla
Gioconda di Leonardo da Vinci o dalla
Ragazza con l’orecchino di perla di Johannes Vermeer! Questa “fine dell’arte”, in questo senso preciso, scioglie i legami forti intrattenuti nella tradizione tra arte e filosofia (da Platone) o tra arte e politica; questi legami frenavano l’arte, miravano a ridurla a qualcosa di diverso da ciò che essa è; troppo effimera, essa non può portare la «vocazione» che le è imposta. Conviene al contrario giocare la carta del pluralismo, e persino dell’autonomia, poiché l’arte compete di più alla retorica che alla filosofia o alla politica.