Il personaggio. La finale di Champions di Luka Modrić, campione devoto al Sacro Cuore
Luka Modrić del Real Madrid
Luka Modrić ce l’ha fatta ancora una volta. Al di là di come finirà l’ennesima finale di Champions League tra il suo Real Madrid e il Borussia Dortmund domani sera. A 38 anni il croato voleva dimostrare di poter ancora giocare a certi livelli. Per questo, a differenza di tanti altri campioni della sua età, in estate ha detto no alle cifre mostruose che gli offrivano in Arabia. Più che arrotondare i già super guadagni, ha prevalso ancora la passione di mettersi di nuovo in gioco. Ha accettato senza batter ciglio anche l’esclusione dai titolari ma quando Ancelotti l’ha messo in campo, la sua classe ha fatto ancora la differenza trascinando i blancos in finale. Perché l’uomo che potrebbe alzare la sesta Champions (insieme con Kroos, Nacho e Carvajal raggiungerebbe il primatista Gento del grande Real) è rimasto il bambino impavido in fuga dalla guerra dei Balcani. Lui che ha visto con i suoi occhi gli orrori di quel conflitto. Aveva soli sei anni quando i serbi uccisero suo nonno mentre pascolava il gregge. Luka che porta il suo nome e spesso lo accompagnava non l’ha mai dimenticato: «Ero molto legato a mio nonno... Quando l’hanno ucciso è stato un momento davvero duro. Ero piccolo e ancora non capivo certe cose. Andavamo a cercarlo ma non sapevamo che non sarebbe più tornato».
Quel giorno stesso il padre decise di portare tutta la famiglia nella città di Zara dove i rifugiati furono accolti nell’Hotel Kolovare. Fu lì, nel parcheggio di quella struttura, che quel piccolo caschetto biondo ha cominciato a farsi notare per l’eleganza con cui dribblava i più grandi. «Vivevamo in una stanza d’albergo da 20 metri quadrati. Eravamo in quattro. Stavo con i miei genitori e la mia sorellina. In ogni caso non ho brutti ricordi. Davanti all’hotel c’era una piazza dove giocavamo a calcio. Spesso le bombe cadevano vicino. Noi dovevamo correre al bunker…Non piangevo, sapevo che stava succedendo qualcosa di brutto. Certo ero un po’ spaventato… Ma poi tornavamo a giocare». A lui bastava un pallone: «Era sempre con me. Anche quando andavamo al rifugio lo portavo con me e giocavo con gli amici o con chiunque altro. Il pallone per me era tutto. Ho rotto parecchi vetri in albergo ma anche delle macchine… Giocavamo a pallone e suonavano le sirene. Ma era diventata una cosa normale».
Dalla Dinamo Zagabria al Tottenham fino al Real Madrid dove ha vinto tutto quello che si poteva vincere. Ha condotto più volte la sua Nazionale a un passo dall’apoteosi (seconda al Mondiale 2018 e terza nel 2022) ma pur non vincendo alcun titolo è stato acclamato in patria come il giocatore croato più forte di tutti i tempi. Molto riservato sulla sua vita privata, le telecamere però qualche anno fa prima di una partita hanno svelato i suoi pilastri interiori. Fece scalpore vederlo baciare i parastinchi, poi però è emerso che proprio lì da sempre custodisce una foto della sua famiglia e un’immagine del Sacro Cuore di Gesù.
Cattolico, sposato con Vanja Bosnic, dalla quale ha avuto tre figli, quando ha ricevuto il Pallone d’oro nel 2018, ha ringraziato in primis la sua famiglia per averlo reso «una persona migliore». Il resto l’han fatto umiltà e sacrifici. «La classe innata? Sono molto grato perché Dio mi ha dato un talento, ma poi devi lavorare e dedicarti molto a quello che fai, alla tua professione. Talento senza lavoro non significa molto». Il 9 settembre compirà 39 anni, ma non ha nessuna intenzione di dire basta. «Ho il fisico per continuare ancora» e anche quella consapevolezza che si porta dentro: «Non ho mai dubitato di me stesso, ho sempre creduto di arrivare qui dove sono oggi, e grazie a Dio tutto questo si è realizzato».