Agorà

Rugby. La fede ovale di Smith, stella cattolica della Nazionale inglese

Andrea Galli mercoledì 18 dicembre 2024

Marcus Smith, 25 anni, fuoriclasse della Nazionale inglese di rugby

La stagione in corso non sembra esaltante per gli Harlequins, la squadra che porta curiosamente nel nome un pezzo di commedia dell’arte italiana anche se è radicata nel cuore dell’inghilterra rugbistica, a Twinckenham, sobborgo a sud ovest di Londra sede della Rugby Football Union e del secondo stadio più grande del Paese dopo Wembley. Giunti a metà del calendario della Premiership, il massimo campionato inglese della palla ovale, gli “arlecchini” viaggiano infatti solo al 7° posto su 10. Ma se il risultato collettivo è al di sotto delle aspettative non è in discussione per nessuno il ruolo e il valore di Marcus Smith, la supernova della squadra, il mediano d’apertura – cioè il playmaker o regista – più talentuoso in circolazione a detta di tifosi e avversari, punto di riferimento anche della nazionale inglese. Non è in discussione nemmeno per la sua società, ovviamente, con cui pochi giorni fa Smith ha rinnovato il contratto fino al 2028 per la cifra di 600mila sterline all’anno, che lo conferma come uno dei giocatori più pagati del settore. Marcus Sebastian Smith, 25 anni, è arrivato in Premiership nel 1999, a 18 anni, il secondo più giovane esordiente di sempre, accompagnato da titoli e commenti sulle varie gazzette che presagivano per lui una carriera fuori dal comune.

Da allora l’attenzione su questo ragazzo sorridente ma niente affatto imponente – un metro e 75 d’altezza per 76 chilogrammi di peso – è stata costante e un paio di domeniche fa il Telegraph, storico quotidiano conservatore, gli ha dedicato una lunga intervista, che si è soffermata anche su un aspetto della sua vita meno indagato di altri anche se non ignoto: la sua fede Smith è nato a Manila, da padre inglese e madre filippina. I genitori si erano conosciuti a Hong Kong dove il padre risiedeva per affari e dove la madre era di passaggio come hostess, e si erano poi trasferiti nel Paese di lei. Marcus ha trascorso nella megalopoli asiatica i primi 7 anni, poi con la famiglia – ha anche due fratelli – si è spostato a Singapore, quindi a 13 anni è finito in pianta stabile nella città natale del padre, Brighton, dove è arrivato già con il rugby nei muscoli e nel cuore, iniziato a questo sport dal padre stesso, che era stato un giocatore di alto livello nonché fondatore di una società sportiva a Manila. « L’origine sud-est asiatica di Smith, attraverso la madre filippina Suzanne, è un riferimento prezioso per comprendere il suo carattere – scrive Oliver Brown, responsabile delle pagine sportive del Telegraph – soprattutto la sua tendenza a cercare conforto nella religione. Mentre a Manila e a Singapore trascorreva una vita agiata, grazie al lavoro del padre Jeremy nel settore immobiliare e a quello di Suzanne come hostess per la Cathay Pacific, Smith è stato immerso, fin da piccolo, nella fede».

«La famiglia di mia madre è molto religiosa» dice direttamente lui, Marcus Smith, «prego ancora regolarmente con mia madre, continuo a leggere la Bibbia. Mi fa sentire sereno, mi fa credere che tutto andrà bene. Negli alti e bassi dello sport professionistico bisogna essere in grado di rimanere il più possibile equilibrati. Non devi pensare di essere un fuoriclasse se vinci una partita, e non devi pensare di essere il peggior giocatore del mondo se ne perdi una. È la cosa più importante che ho imparato in questi ultimi due anni». Il rapporto con la fede dell’asso anglo-filippino non è stato sempre stretto come ora: « Me ne sono allontanato probabilmente tra i 14 e i 19 anni – spiega – c’erano altre cose che mi interessavano, ma quando avevo 21 anni, stavo lottando riprendere forma, stavo cercando di entrare nella rosa dell’Inghilterra, mia madre mi ha suggerito di ritornare sui miei passi. Ora faccio la Comunione, prego ogni sera e ogni mattina. Da allora non ho mai smesso. Mi dà pace». L’anno scorso, in un’altra intervista, sempre riflettendo su questo passaggio della sua vita Smith aveva detto di Dio: «Ho affidato a Lui tutti i risultati, tutto ciò che non posso controllare e nel mentre ho lavorato il più duro possibile in questo sport che amo. Questo mi ha avvicinato molto a Dio, io credo profondamente in Lui».

Sono parole e riflessioni semplici, magari per qualcuno fin troppo semplici, però non sono scontate e suonano sincere se non altro per il fatto che non è certo un attestato di fede cattolica praticata il modo migliore per attirare consensi in una realtà come quella inglese, compresa quella sportiva- patinata. Questo tratto di Marcus Smith, che merita una sottolineatura, rimanda al rapporto tra rugby e cattolicesimo, che se non è stato mai eclatante nondimeno ha una sua consistenza storica e attuale. Al tema ha dedicato recentemente un approfondimento il portale statunitense di informazione cattolica The Pillar, che ha fatto notare, per esempio, come a Larrivière-Saint-Savin, comune francese di 600 abitanti situato nel dipartimento delle Landes, regione della Nuova Aquitania, esista già un luogo di culto che celebra questa storia. Si tratta della cappella chiamata Notre Dame du Rugby. È una piccola chiesa di origine medievale che negli anni ’50 del secolo scorso fu restaurata da un sacerdote, padre Michel Devert, che la dedicò al tema del rugby – sport che va per la maggiore da quelle parti – in memoria di tre giovani rugbisti morti in un incidente stradale. Oggi raccoglie ricordi, cimeli, oggetti devozionali lasciati dai giocatori che si recano lì per pregare o per semplice curiosità. Una vetrata raffigura una Madonna con bambino che tiene in mano una piccola palla ovale e sotto giocatori stilizzati che alzano le mani in direzione della Vergine.

Ma il legame tra rugby e cattolicesimo è vivo anche in un Paese che al rugby è profondamente legato, la Nuova Zelanda. Padre Anthony Sumich, 58 anni, oggi è un sacerdote della Fraternità Sacerdotale San Pietro di stanza a Auckland, dove è nato. Prima di entrare in seminario all’età di 34 anni, è stato un giocatore di livello e allenatore della nazionale di rugby croata, Paese in cui affondano le sue radici familiari. «Ad Auckland – ha raccontato a The Pillar – la competizione delle scuole superiori è una delle più spietate e difficili al mondo a quel livello. Ci sono 16 squadre e 8 di queste sono di scuole cattoliche maschili». Padre Sumich, che difende e doffonde il connubio fede-rugby, ha anche in mente chi un giorno potrebbe diventare il patrono del movimento: padre Francis Douglas (1910-1943). Fu un ottimo giocatore di rugby neozelandese, che entrò nella Società Missionaria di San Colombano e nel 1939 fu inviato nelle Filippine. Nel 1944 durante l’ occupazione giapponese fu arrestato dalla polizia segreta e per tre giorni fu torturato perché rivelasse informazioni sui guerriglieri presenti nella zona di cui si presumeva fosse lui il confessore. Non disse una parola e fu ucciso. L’arcidiocesi di Wellington e i Missionari Colombani stanno ora lavorando per l’ apertura della sua causa di beatificazione.