Idee. Halík: «C’è sete di spiritualità: la fede può risorgere da secolarismo e virus»
La cattedrale di San Vito a Praga
Il teologo praghese Tomáš Halík torna in libreria dall’8 marzo con Un tempo per piantare e un tempo per sradicare. Quaresima e Pasqua di un’epoca inquieta (Vita e Pensiero, pagine 216, euro 16,00), del quale anticipiamo un brano dell’introduzione.
Le società dei Paesi postcomunisti hanno attraversato alcune ondate di secolarizzazione: sia una secolarizzazione culturale “morbida”, che ha accompagnato la modernizzazione di gran parte dell’Europa e della civiltà occidentale nel suo complesso, sia una secolarizzazione “dura”, messa in opera dai regimi comunisti. Con la “secolarizzazione morbida” si indebolisce il contesto socio-culturale della religiosità tradizionale; la società agricola delle campagne e la vita in generale si sposta nelle città industriali.
Nell’Europa centrale questo è stato il caso della Repubblica Ceca, la cui terra, già relativamente secolarizzata, è stata scelta dagli stalinisti come campo di prova per un’ateizzazione drastica e totale della società, un’espulsione completa della religione dallo spazio pubblico. Ma neanche la “secolarizzazione dura” ha mai lasciato dietro di sé una società pienamente atea. A volte (anche in Cechia) ha addirittura sollecitato una ripresa della religione. Frutto di questa resistenza al regime ateo è stato anche il “fenomeno Wojtyla”, che ha segnato significativamente la storia della Chiesa e del mondo.
Tuttavia, dopo la caduta del comunismo non si è verificato un ritorno della società tradizionale o una generalizzata rinascita della religione, quanto piuttosto un’evoluzione che ci ha avvicinati alla società pluralista tipica dell’Occidente. Nella Repubblica Ceca la Chiesa ha dilapidato velocemente il capitale di simpatia che aveva accantonato sulla soglia della nuova epoca. Invece di divenire parte attiva del processo di umanizzazione e democratizzazione della società, è annegata nello sforzo di ripristinare la situazione precedente, si è chiusa in sé stessa e insieme ad alcuni ex dissidenti ha lasciato libero uno spazio che poi è stato occupato dal fondamentalismo commerciale, mano onnipotente e invisibile del mercato.
A partire dall’attentato alle Torri Gemelle l’11 settembre 2001, si è levata contro la globalizzazione un’aperta opposizione: sono cresciuti il fondamentalismo religioso, il populismo, il nazionalismo, la xenofobia, le fake news e le teorie cospirazioniste. Alla paura di fronte alla complessità del mondo si è ora sommata quella per le malattie infettive e per le loro conseguenze economiche e sociali. Su questo terreno è caduto come benzina sul fuoco l’omicidio dell’afroamericano George Floyd per mano di un brutale poliziotto, in conseguenza del quale si è sollevata un’ondata di violenza e inquietudine in diverse aree del mondo.
Dall’atmosfera di paura e insicurezza traggono profitto politici populisti che ricevono voti soprattutto da persone anziane o con un basso livello di istruzione, non soltanto nelle democrazie non ancora mature dei Paesi postcomunisti, ma anche in quei Paesi che sono stati la culla della democrazia moderna, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Nelle regioni postcomuniste i politici populisti abusano volentieri della retorica e della simbologia del cristianesimo e provano in ogni modo a corrompere o ammansire la gerarchia della Chiesa cattolica. Se i rappresentanti ecclesiali stringeranno con loro, in modo miope, una qualche forma di alleanza, danneggeranno tragicamente la Chiesa, da cui cominciano ad allontanarsi, in primo luogo, i detentori del futuro della società, i giovani e i ceti istruiti. Nella nostra epoca, a essere separate dal punto di vista politico, ideologico, culturale e sociale non sono solamente le singole società, ma anche le Chiese. E la separazione non è tra di loro, ma all’interno di ciascuna.
La situazione della Chiesa cattolica nel mondo ricorda fortemente l’epoca immediatamente precedente alla Riforma, allo scisma di Occidente. L’ondata di rivelazioni sugli scandali di abusi sessuali e psicologici all’interno della Chiesa, a lungo tenuti nascosti e vissuti come un tabù, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, come nel Medioevo lo è stata la vendita delle indulgenze. Anche allora sotto un fenomeno apparentemente marginale si sono scoperti problemi fondamentali: il problema del rapporto tra Chiesa e Stato e fra clero e laici. In quegli anni nell’Europa centrale un numero record di credenti ha lasciato la Chiesa. È necessario rendersi conto che per la maggior parte le persone che abbandonano la Chiesa non diventano atee: alcune si allontanano proprio perché prendono la fede più seriamente di quanto abbiano visto fare nella Chiesa.
L’esperienza della pandemia mi ha confermato in un’opinione per la quale propendevo già in precedenza, mentre studiavo la scena religiosa contemporanea. Oggi non ci troviamo più di fronte a una secolarizzazione intesa come crisi delle certezze religiose, bensì come crisi globale delle certezze dell’uomo contemporaneo. Se vogliamo comprendere il mondo che sta nascendo e nel quale continueranno a farsi sentire gli effetti collaterali della globalizzazione – come contagi di ogni genere, compresi quelli politico-ideologici di populisti e fondamentalisti religiosi –, dobbiamo mettere da parte molte delle categorie per noi finora abituali e altrettanti schemi di pensiero semplificatori.
Qualche tempo fa ho assunto la direzione del programma di ricerca “Faith and Beliefs of Nonbelievers” (La fede e le convinzioni dei non credenti) al quale partecipano teologi, sociologi e filosofi provenienti da diversi Paesi di più continenti. Le prime conclusioni di questa ricerca mostrano quanto problematico sia, nell’epoca dello “scuotimento di tutte le sicurezze”, inquadrare le persone in categorie semplicistiche quali credenti/non credenti, dal momento che nelle posizioni e nei pensieri di molti contemporanei “fede” e “incredulità” si confondono in un modo complesso. Nei momenti drammatici in cui l’evoluzione storica varca un’altra soglia, la fede di molti credenti trema.
Allo stesso tempo, tuttavia, molti non credenti cominciano a porsi interrogativi fondamentali. Il poeta ceco Vladimír Holan lo ha espresso in un verso: «Ciò che non trema non è saldo». Non solo tra i credenti di Chiese diverse, ma anche tra fede e scettiscismo possono esserci dei “doni reciproci”. Nella Repubblica Ceca il numero degli appartenenti alla Chiesa cattolica (e alle altre Chiese principali) ormai da anni sta diminuendo a un ritmo tale che, qualora non si giungesse a una riforma fondamentale, i praticanti si ridurrebbero fino a divenire una setta marginale. Eppure non è corretto indicare la società ceca come atea. Se molti cechi definiscono sé stessi atei, è più per prendere le distanze da certe forme di teismo (una modalità di manifestazione della fede) e dalla Chiesa istituzionale (anticlericalismo).
L’esempio citato della Parrocchia Accademica di Praga (e di altre parrocchie e centri cristiani di indirizzo simile) mostra chiaramente che la causa del numero ridotto di appartenenti alla Chiesa non è “l’irreligiosità, il materialismo, il consumismo e il liberalismo” della società ceca, quanto piuttosto l’incapacità di gran parte della gerarchia ecclesiastica e del clero di capire la cultura e la società contemporanee e di rivolgersi a questa società in modo comprensibile e credibile. In primo luogo è necessario comprendere che tentare una modernizzazione all’acqua di rose non porterà alla riforma necessaria. Di tentativi maldestri di adattare commercialmente la religione allo stile della “società del divertimento” ne sono stati fatti sin troppi all’interno della Chiesa, e si sono rivelati sterili esattamente come quelli di ignorare l’evoluzione storica rifacendosi alla Chiesa dei tempi che furono.
Lo sforzo di imitare la religiosità popolare della società premoderna, che ormai da molto tempo ha perso il suo contesto storico-culturale, e di imbastire liturgie barocche genera, nel migliore dei casi, un folklore da turisti; più spesso un increscioso imbarazzo. Per molto tempo ho visto quale unica via d’uscita ciò che nel cuore della Chiesa ceca aveva posto innanzitutto papa Benedetto: un dialogo colto, intellettuale con la società del Paese in maggioranza atea. Oggi invece mi sembra di gran lunga più importante la cura della vita spirituale di ciascun individuo e l’accompagnamento spirituale. Nessuna “nuova evangelizzazione” porterà frutti se non sarà preceduta da una “pre-evangelizzazione” nella forma di una cura sistematica della cultura spirituale degli individui e della società, una conversione da una vita superficiale e conformistica (vivere come si vive nel mondo) a una cultura del “discernimento spirituale”, alla responsabilizzazione verso sé stessi, il prossimo e l’ambiente comune. (...)
Tuttavia, l’esperienza della pandemia ha mostrato che in determinate situazioni persone che fino a quel momento erano rimaste indifferenti alla religione o avevano preso le distanze dalla “religione organizzata”, improvvisamente diventano sensibili ai temi religiosi e interessate a ciò che in quei momenti dicono i cristiani. Il loro atteggiamento di indifferenza e distanza non è immutabile.Già due volte in passato sono stato testimone della rapidità con cui, in un Paese come il nostro che si suppone ateo, la religione sia salita alla ribalta in
situazioni socio-politiche di tensione: durante l’occupazione sovietica nell’agosto del 1968 e nei giorni drammatici della caduta del regime comunista nel novembre del 1989. Durante l’invasione, quando la sede della radio venne occupata dai militari sovietici, fra i programmi alternativi trasmessi da luoghi segreti da redattori coraggiosi apparvero improvvisamente delle funzioni religiose, una cosa inimmaginabile anche nel periodo di distensione ideologica della Primavera di Praga.
La messa di ringraziamento per la canonizzazione di Agnese di Boemia, officiata dal cardinale Tomášek nella cattedrale di Praga – la prima messa in Cecoslovacchia tramessa dalla televisione di Stato – divenne l’ouverture solenne della più grande e probabilmente decisiva manifestazione per la libertà che si tenne nei giorni drammatici immediatamente precedenti alla caduta del regime. Durante gli scioperi studenteschi si crearono spontaneamente, nei collegi e nelle facoltà, alcuni luoghi di preghiera che fecero da incubatrici per un numero incalcolabile di conversioni. Il Padre nostro, con la sua enfasi sulla remissione dei peccati, venne recitato da una folla sterminata a Letná su invito di Václav Malý, il moderatore delle manifestazioni di massa durante quei giorni drammatici; non dimenticherò mai le immagini dei volti di quelle migliaia di persone, molte delle quali si sforzavano di ricordare le parole della preghiera.