Capita che di alcuni scrittori stranieri, in Italia, si perdano le tracce, dopo essere stati tradotti con i libri del loro esordio. È il caso di Jane Urquhart, scrittrice canadese, autrice di otto romanzi accolti con grande successo di critica a livello internazionale, al punto da essere definita, giustamente, come l’erede di Margaret Atwood e Alice Munro. Nel nostro paese era stata pubblicata dalla casa editrice La Tartaruga con tre romanzi
Altrove, Niagara, Cieli tempestosi, negli anni Novanta. Eppure la sua è una voce inconfondibile e rara. Lo sta a dimostrare il suo penultimo romanzo, uscito in prima edizione nel 2010, un’opera quasi perfetta che viene ora tradotta, per Nutrimenti, da Nicola Manuppelli e ci presenta una storia di famiglia, molto lontana, anche se vi fa riferimento, a quelli che sono i termini, ma spesso anche gli stereotipi della saga familiare. Qui la famiglia è legata al senso di perdita che vive la voce narrante, raccontando ad un personaggio, la cui identità verrà rivelata solo alla fine: la Urquhart ha la capacità e il nitore di saper raccontare, senza rivelare più del possibile, lasciando intorno alle vicende un alone di mistero, zone d’ombra che si riveleranno solo alla fine del racconto. È l’essere stesso di un mondo perduto quello che ci racconta la scrittrice, un presente in cui sente di rivivere un passato che le appartiene, ma che non ritrova più nella sua contemporaneità. Infatti la protagonista, Liz, ritorna a vivere nella fattoria sulla riva del lago, in Ontario, in cui ha trascorso gli anni della giovinezza. Prima osservava le farfalle monarca come semplici elementi di una bellezza che ad un certo punto della stagione estiva incendiava «l’albero delle farfalle»: «Era un regalo meraviglioso che ci attendeva alla fine della stagione: un albero autunnale simile a un roveto ardente, un cedro divampante di ali». Ora lo fa con la precisione di un mestiere che richiede lo studio e l’osservazione, quello dell’entomologa. Ritorna in un luogo che ha rappresentato «il tutto» nella sua esistenza, una fattoria con tanti alberi da frutto: ciliegi, peschi, meli e peri e coltivazioni di fragole e di pomodori, con i lavoratori messicani che arrivano per la stagione della raccolta e poi ritornano nel loro paese, con uno zio, il famoso frutticultore del lago Eire, che rappresenta anche il segno di una sconfitta, dopo un tragico incidente e la fine di questo mondo dove i luoghi tessevano i rapporti, quello ad esempio con la cugina Mandy o con il primo amore, un ragazzo messicano, Teo che si trasferiva ogni estate alla fattoria con la madre. Entrambi non ci sono più ed emblematicamente il libro si apre nel ricordo della morte di Mandy, in Afghanistan, dove si era arruolata nelle forze di pace. Quello che trova, quando ritorna è un mondo in parte perduto e la scrittura serve a ridare vita ad un luogo dove sembra essere sopravvissuta solo la casa dove Liz ora alloggia: «Nel corso di quella lunga estate lontana, quando c’erano ancora molti di noi e le giornate si susseguivano lentamente sul calendario, la fattoria di mio zio sembrava qualcosa di certo e stabile, come un impero reso venerabile dal tempo». Poi il dramma, la scomparsa dello zio, la desolazione e il tempo della poesia (Stevenson in particolare, più volte citato) a sottolineare le fragilità umane, il senso di una lenta caducità delle cose.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Jane Urquhart
SANCTUARY LINE Nutrimenti. Pagine 240. Euro 17,00 L’autrice canadese viene di nuovo tradotta in Italia con il suo penultimo romanzo nel quale la protagonista, Liz, si reca nella fattoria dove ha vissuto la sua giovinezza