Architettura. La dimora di Dio è tutta la città
La città di Firenze con al centro la basilica di Santa Croce
Pare strano parlare di sacralità estesa a tutto lo spazio della città, in quest’epoca di masse transeunti di turisti in cui i luoghi più significativi, chiese incluse, divengono a volte oggetto di consumo. Ma questo fa Andrea Dall’Asta nella sua opera più recente, Dove abita Dio. La nascita dello spazio sacro nell’Occidente (Àncora, pagine 382, euro 30,00). Non v’è civiltà che non lasci impressi negli edifici più rappresentativi i tratti caratteristici della propria cultura. «Ma non parlo di storia dell’architettura – spiega Dall’Asta – piuttosto mi son posto il problema di come l’essere umano si rapporti a Dio e di come compia l’esperienza del sacro». Da tale punto di vista si nota come gli spazi delle chiese siano simboli attivi, capaci non solo di rappresentare e ricordare ma anche di rendere presente e vivificare il rapporto che inestricabilmente lega l’essere umano al Creatore. Questo rapporto è considerato nel suo evolversi nei tre poli fondativi della civiltà occidentale: l’antica Grecia, il mondo ebraico e quello cristiano. E secondo una successione il cui tracciato mette in luce una crescente prossimità tra l’essere umano e la sacralità – sino alle soglie della nostra epoca. I luoghi del sacro sono quelli in cui avviene un incontro, e questo assume diverse modalità a seconda della capacità che le culture hanno di accogliere la trascendenza: in ogni caso ne pongono in evidenza la centralità. Infatti «nella città antica la prima architettura a essere costruita è il tempio» scrive Dall’Asta, e gli spazi urbani in vario modo si sviluppano in relazione a questa presenza fondativa.
I templi che sorgono in Grecia su spiazzi elevati ai cui piedi si distende il tessuto urbano sono intesi a riecheggiare, nella perfezione geometrica e nell’armonia degli elementi, quella bellezza che si riscontra nella natura terrena così come nella volta celeste. Nel recinto del tempio, che ben separa la sua perfezione dallo spazio profano, la divinità è ospitata nell’ambiente più interno ed esprime grandiosità: la si riconosceva nella statua di Atena sul Partenone, il cui sguardo fisso lontano, oltre la realtà umana, manifestava il superiore e inattingibile sapere della dea. Diverso dagli spazi sacri del tempio ebraico che sorge come frutto del lungo dialogo intrapreso da Dio con l’uomo: perché Jahvè, sebbene non possa essere guardato per quanto si manifesti a Mosè nel roveto ardente, parla all’uomo. E giunge a dettare i modi in cui realizzare gli ambienti destinati a contenere le Tavole della Legge nella tenda che accompagna il viaggio attraverso il deserto e poi nel primo e nel secondo tempio eretto a Gerusalemme. Non per ospitarlo, a differenza di quel che avveniva nei templi greci, poiché il Dio di Israele non è contenibile in alcun luogo, ma per offrire i sacrifici e ascoltarne la parola. Ecco dunque che il Dio di Israele, il cui nome coincide con l’essere stesso (“Io sono colui che sono” Es 3,14), né può essere definito, né può essere racchiuso in alcun luogo. Di qui che nel tempio ricostruito dopo la distruzione compiuta da Nabucodonosor, e la relativa scomparsa della tavole della legge, il Santo dei Santi – la parte più interna – rimanesse vuoto.
Sinché questa presenza-assenza non giunge a incarnarsi entrando nella storia con Gesù, che inverte la logica del sacrificio: non è più l’uomo che sacrifica qualcosa per ottenere il favore della divinità come in Grecia, o per rivolgersi a essa e ascoltarne la parola, come in Israele, ma Dio stesso che compie il sacrificio per salvare l’essere umano. Così la rivoluzione cristiana sposta l’accento, dal luogo alle persone: sono loro il vero tempio, e il luogo è quello in cui esse si radunano per rivivere il dono della salvezza. «Se sul monte Sinai il volto di Dio restava inaccessibile – scrive Dall’Asta – in Cristo la relazione con Dio si concentra in un incontro che implica il vedersi, il toccarsi, l’abbracciarsi, e assume il valore di una testimonianza oculare». E «lo spazio della chiesa diventa quello della presenza della vita umana che vive a immagine di Cristo e che si fa evento nella liturgia». Chiesa è l’assemblea dei fedeli: per estensione significa l’edificio in cui avviene il radunarsi. E tale edificio, una volta sancita la libertà di culto con l’editto di Milano del 313, i cristiani mutuano da quello che per l’impero romano era la piazza coperta in cui svolgere le funzioni pubbliche: la basilica. Ma, nota lo storico dell’arte Richard Krautheimer, «la basilica cristiana sia come funzione, sia come forma, è stata un fatto decisamente nuovo». Infatti in essa si manifesta una dinamicità sconosciuta in precedenza: nello sviluppo longitudinale, dalla porta verso l’abside, la chiesa attiva una tensione che esprime il senso del cammino del popolo verso la sua meta lontana: sa che la raggiungerà solo quando potrà vedere “faccia a faccia”, ma il cammino stesso è luogo dell’incontro, poiché è compiuto insieme coi fratelli. E la corporeità di Cristo diviene motivo ispiratore: l’impianto delle chiese a transetto ricorda la croce del Golgota; la dialettica tra il qui e ora e la tensione trascendente si manifesta nella verticalità di cupole che esprimono il discendere della grazia dall’alto; le storie della rivelazione abitano le superfici interne esaltando delle chiese la qualità di scrigno. Spazio prezioso perché ospita le specie consacrate, le reliquie dei santi e la comunità orante: di qui che nel mondo cristiano le chiese sorgessero quale centro di spazi urbani che da loro traevano il senso del raccogliersi attorno a valori condivisi. I costruttori un tempo avevano in mente la Gerusalemme celeste, ricorda Dall’Asta: strutturata, articolata, accogliente. Anche oggi questa potrebbe suggerire come umanizzare le nostre città sfilacciate nello sprawl e nell’assenza di senso: recuperando la sacralità dello spazio.
La basilica di Santa Sofia a Istanbul / Icp