Teologia. La consolazione, promessa presente
August Jerndorff, “Gesù consolatore”, 1892, pala d’altare della chiesa di Nykøbing Mors, in Danimarca
Si intitola Chi ci separerà? Senso di abbandono e consolazione (San Paolo, pagine 160 euro 15,00), il nuovo volume di Giovanni Cesare Pagazzi, teologo e segretario del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, di cui anticipiamo alcuni passaggi del capitolo finale. Per la Bibbia, il senso di abbandono è esperienza originaria e complessa. Tocca Dio e gli umani, peccatori e innocenti. La risposta è la consolazione. Ma quale?
«Io, io sono il vostro consolatore» (Is 51,12). Nel libro di Isaia la forza consolatrice di Dio si fonda sulla sua capacità di creare, indicativa di un’inimmaginabile e insperata inventiva di soluzioni. Alla medesima conclusione giunse l’afflitto Giobbe, dopo che YHWH gli mostrò l’intera Creazione (Gb 38-41): «Comprendo che tu puoi tutto / e nessun progetto per te è impossibile» (Gb 42,2), nemmeno quello di consolare un uomo disfatto da perdite e lutti. In effetti, Giobbe fu consolato (Gb 42,1016). Tuttavia, benché sazio di giorni, il saggio morì (Gb 42,17); perdette ancora (stavolta definitivamente) le ricchezze, i figli e le figlie; così come i figli e le figlie persero lui, per sempre. E se, vista la sua inimmaginabile e insperata inventiva creatrice, Dio tenesse in serbo un’altra impensabile, inattesa consolazione? Proprio chi, leggendo Isaia nella sinagoga di Nazaret, si manifestò come il vero consolatore dei cuori rotti, custodiva un imprevedibile conforto. Nei pressi di una città chiamata Nain, Cristo s’imbatte in un corteo funebre: viene portato alla tomba l’unico figlio di una donna già da tempo vedova. Una scena da strappare il cuore, romperlo, farlo ammalare. La morte sigilla l’abbandono di questo ragazzo senza più padre, di questa donna privata di marito e figlio. Per le Sacre Scritture l’orfano e la vedova sono l’emblema degli abbandonati. Gesù non scansa la donna, ma la «vede» e ne sente «una grande compassione». L’affetto del Signore non risuona solo a motivo della sua bontà, ma perché in lui pure vibra la corda dell’abbandono, a causa dell’andirivieni del Padre, provato sulla sua stessa pelle. È in empatia con questa abbandonata; riecheggia il suo sentimento, poiché anche in lui è diffuso il medesimo suono. Rivolgendosi a lei, dice: «non piangere» (Lc 7,13). Com’è possibile chiedere una cosa simile? È quasi una violenza. Oppure esprime la sicurezza di chi sa che può. Il Signore si approssima alla bara e la tocca: una vicinanza tattile, perfino proibita dalla legge d’Israele. Ordina al morto di svegliarsi; il morto obbedisce. Giustamente conquistati dalla sequenza impressionante e dall’efficacia delle azioni di Cristo, rischiamo di sorvolare l’ultimo suo gesto che, in realtà, è la corona e il vanto della pagina evangelica: «Egli lo restituì a sua madre» (Lc 7,14). Tutto mira a questa restituzione, quasi che Cristo si senta in debito con la donna. [...] L’attenzione di Gesù all’orfano e alla vedova riecheggia nella franchezza dell’apostolo Giacomo: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre e questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo» (Gc 1,27). Ciò lascia intendere che esiste anche una religione impura e morbosa la quale, anziché guarire, contamina e fa ammalare. Stando all’apostolo, una religione salutare non nega l’esperienza dell’abbandono; non lo sorvola né maschera, ma lo riconosce, ammettendo l’esistenza di uomini e donne sconfortati, nonostante la fede in “Dio Padre”. Perciò, una religione “salutare” non crede in un Dio saturante, garanzia di pienezza e continuità, priva di separazioni e lontananze. Insomma, la religione sana crede che il Regno è “nelle vicinanze”, nell’andirivieni. Non per nulla lo stesso Anno Liturgico, lungo tutta la vita, addestra i battezzati all’andirivieni di Dio: l’attesa del Signore durante l’Avvento, la sua venuta nel Natale, il suo distacco nell’Ascensione, la sua misteriosa compagnia grazie al dono dello Spirito a Pentecoste, per sentirne nuovamente la mancanza nell’Avvento successivo. Altra caratteristica della “religione pura” è ammettere che i credenti hanno il potere di consolare. Le opere di misericordia (corporali e spirituali) e gli stessi sacramenti altro non sono che espressioni della consolazione degli afflitti. Al momento non ci è promessa la scomparsa di orfani, vedove e afflitti, ma già da ora ci è dato il potere, e il conseguente dovere di consolarli. Non è possibile restituire loro chi e quanto hanno perduto, ma fasciare il cuore sì; almeno durante il tempo che li separa dal giorno in cui l’unico che può restituire: “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno” (Ap 21,4). Giacomo riassume così la pratica della religione pura: credere nel Padre, e quindi vivere come il suo Figlio Gesù; perciò, consolare gli afflitti come fosse l’unica vocazione e missione. [...] La consolazione salva e la salvezza consola, guarendo il cuore. Ciò non significa che la consolazione si arresti all’intimità vitale del cuore. Anzi, il cuore consolato diviene il punto d’appoggio dello slancio missionario, come ricevesse una “sferzata di energia”. [...] Secondo il denso testo paolino la consolazione non pone termine alla tribolazione, anzi vibra esattamente nell’«abbondanza delle sofferenze», come qualcosa che «dà forza» (2Cor 1,6). Connesso all’infusione o al risveglio di energia e potenza è il termine greco utilizzato da Paolo per indicare la consolazione: paraklesis. Nel Nuovo Testamento, la parola significa “supplica”, “invocazione”, ma soprattutto “esortazione” e “consolazione”. Purtroppo, in italiano, “esortare”, “esortazione” suonano ormai come “rammentare a qualcuno un dovere”, “richiamargli un compito”. In realtà, il termine greco indica piuttosto un incitamento, un incoraggiamento. [...] Perciò, con impeto che viene chissà da dove, Paolo parla di forza e vittoria anche nella tribolazione, poiché niente e nessuno può recidere il legame con Cristo, con Dio. Egli non tradisce, anche quando abbandona: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose siamo più che vincitori, grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39). Dio chiede ai battezzati di aiutarlo a persuadere il cuore di ogni uomo e ogni donna, che lui non tradisce. «Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo»; così parla il Risorto, proprio mentre se ne sta andando, lasciando soli i suoi amici (Mt 28,20). Chi dice “Ecco” attira l’attenzione su una cosa. Intende indicare un che di evidente e apprezzabile, eppure non scorto; forse per distrazione, o superficialità. Dicendo ai suoi “Ecco”, dove il Risorto attira l’attenzione? Cosa indica come lampante eppure non considerato? La sua presenza, la sua compagnia. Agli occhi del Risorto, non ci accorgiamo della indubitabile fortuna, del felice destino della sua presenza reale, viva, efficace, vibrante di incomprensibile premura. Calamitati dal passato della Chiesa, o stregati dal suo futuro, non sentiamo l’operosa vicinanza del Vivente nel chiaroscuro dei nostri giorni. «Io sono con voi tutti i giorni». Sì. In quelli solari, in quelli piovosi e perfino in quelli col cielo bianco che nasconde il sole e non regala la pioggia. Nei sabati pieni di attesa, nelle domeniche del compimento, nei lunedì e martedì faticosi, nei venerdì dai misteri dolorosi, nei mercoledì e giovedì che ci trovano in mezzo al guado. Nei giorni vittoriosi, dove l’anima si espande per santità, e in quelli dove è rattrappita per i peccati. Nei giorni in cui la sua presenza si tocca e nei giorni in cui lui è “nelle vicinanze”, ma non si vede e ci lascia soli. «Ecco, io sono con voi tutti i giorni». Non ce ne accorgiamo?