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Storia. Altro che catacombe: per i primi cristiani la fede era una cosa di casa

Roberto Righetto domenica 27 ottobre 2024

Le catacombe di San Gennaro, a Napoli

Vai dal panettiere e ti senti dire che il Padre è più grande e importante del Figlio; entri alle terme, chiedi se è pronto il bagno e ti rispondono che il Figlio è sorto dal nulla; domandi al cambiavalute quanto vale una moneta e lui comincia a dissertare sul generato e l’ingenerato. Quanto fosse popolare la controversia ariana nel IV secolo dopo Cristo è testimoniato dal celebre brano di Gregorio di Nissa che qui abbiamo riassunto. La somiglianza o l’eguaglianza fra Cristo e il Padre fu uno dei dilemmi cruciali della cristianità e venne risolta con il Concilio di Nicea del 325, di cui il prossimo anno si celebrerà il 1700° anniversario. Il cristianesimo era da poco emerso alla luce del sole grazie all’Editto di Costantino del 313 che aveva sancito la libertà di culto ponendo fine alla cosiddetta era delle persecuzioni. Ed è ai primi secoli della nuova religione che è dedicato uno studio di Marie-Françoise Baslez pubblicato da Queriniana col titolo La Chiesa nelle case. Storia delle prime comunità cristiane (pagine 230, euro 25,00). L’autrice, che è stata docente di Storia delle religioni a Parigi ed è da poco scomparsa, prende in esame i primi tre secoli, dunque non entra tanto nel merito delle controversie teologiche e si sofferma sullo stile di vita dei credenti in Cristo, descrivendo come – e spesso con grande difficoltà, in un ambiente che era perlopiù indifferente – il nuovo culto si è affermato nella società romana.

«Fino al 250 – si legge nel volume – le repressioni furono puntuali, circostanziate e locali, limitate nel tempo e nello spazio». Se persecuzioni vi furono, è però esagerato parlare di una “Chiesa sotterranea” costretta a riunirsi nelle catacombe. I primi cristiani si riunivano nelle case e il luogo privilegiato erano i nuclei familiari. Sottolinea ancora Baslez: «Il senso generale dell’evoluzione contraddice l’immagine convenzionale di una chiesa confinata, divenuta sotterranea alla prova delle persecuzioni, una rappresentazione della Chiesa che si basa su alcuni racconti fondativi e soprattutto sull’utilizzo di siti-reliquie: le catacombe o cimiteri sotterranei di Roma. Questo immaginario deve essere confrontato con la documentazione oggi disponibile, con il quadro normativo del diritto romano e con le analisi dell’archeologia moderna che ha rinnovato la nostra visione delle catacombe e la questione della clandestinità».

Come testimoniato dai Vangeli e dagli Atti degli Apostoli, alla fine del primo secolo la Chiesa era soprattutto a dimensione familiare ed era una presenza ormai radicata. Anche la formula di Paolo katà oikiàn ben rappresenta la situazione delle prime comunità, che solo col passare del tempo, grazie all’allargamento delle reti cristiane attraverso ad esempio il ruolo di mercanti o soldati, si trasformarono in “Chiesa di città”. Quella dei primi tre secoli poi era una Chiesa davvero sinodale, per utilizzare un termine oggi di moda, in cui si praticava la regola dell’agape, la donna aveva una funzione di primo piano e ci si poneva la questione degli schiavi. Il libro non enfatizza più di tanto il ruolo del cristianesimo a favore di una loro liberazione, ma riconosce l’esistenza di un processo di elaborazione per cui si richiedeva che gli schiavi fossero trattati come persone che avevano dei diritti. Si pensi alla Lettera a Filemone o alla vicenda di papa Callisto, che era stato schiavo prima di essere affrancato.

A poco a poco i cristiani si resero conto inoltre che una vera e propria evangelizzazione del mondo antico doveva implicare una circolazione dei saperi. Così cominciò ad emergere la consapevolezza della rilevanza della cultura e della comunicazione, con la copia dei manoscritti, i laboratori di scrittura e la diffusione di lettere e documenti. «Gli apostoli – può concludere Baslez – non erano degli individui isolati in uno spazio frammentato, non portarono direttamente il Vangelo ai confini del mondo. Queste sono ancora immagini emblematiche ma convenzionali, che bisogna correggere. Le missioni apostoliche hanno percorso strade aperte da diverse reti, in primo luogo quella della diaspora ebraica e soprattutto quelle delle reti familiari professionali. (…) Non è un paradosso che la Chiesa a dimensione familiare abbia funzionato come un laboratorio che ha forgiato una dimensione individuale e personale del cristianesimo, avendo toccato con mano quanto fosse difficile vivere nel mondo secondo il Vangelo. Qui si situa certamente una rottura importante nella storia delle società antiche, quando la religione è diventata un’adesione personale e non più un’eredità ancestrale che la famiglia aveva la funzione di trasmettere a tutti i costi».

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