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La mostra a Venezia. I nodi del Novecento e il pettine della Biennale

Alessandro Beltrami mercoledì 7 ottobre 2020

Il Salone dei Concorsi nel Padiglione Italia alla XXI Biennale, 1938

Non è solo una mostra d’arte, un festival cinematografico, musicale o di teatro. Se quella di Venezia è la Biennale per antonomasia un motivo ci sarà: e non è esclusivamente estetico. Certo, qui si sono registrati diversi snodi della storia recente delle diverse arti. Ma la Biennale appare come un condensato della storia del Novecento, un sismografo della politica e delle trasformazioni sociali. È come se sopra i suoi cieli la Biennale sia riuscita ad addensare le tensioni in atto, configurandosi come il teatro perfetto dello Zeitgeist.

È quanto appare da “Le muse inquie-te”, mostra con cui la fondazione veneziana ha fatto fronte alla necessità imposta dal Covid di far slittare di un anno l’edizione dedicata all’architettura. Fino all’8 dicembre all’interno del padiglione centrale dei Giardini i diversi direttori artistici (Cecilia Alemani arti visive, Alberto Barbera cinema, Marie Chouinard danza, Ivan Fedele musica, Antonio Latella teatro, Hashim Sarkis architettura) hanno incrociato i percorsi dei rispettivi settori costruendo attraverso il ricchissimo archivio storico della Biennale l’immagine, come recita il sottotitolo, della “Biennale di fronte alla storia”.

La grande mole di documenti – fotografie, film, cinegiornali, lettere, manifesti, molta rassegna stampa – non ricostruisce la cronologia della manifestazione ma ne esplora le intersezioni con i momenti clou del secolo ormai chiusosi venti fa. La stessa Biennale, dopo la sua fondazione nel 1893 da parte del Comune di Venezia come motore turistico, acquista la sua fisionomia con il regime fascista, che dal 1928 ne fa luogo d’elezione di diplomazia culturale, manifesto internazionale della permanente rivoluzione fascista (si spiegano così le scelte progressive del regime in campo estetico e la fascinazione esercitata su artisti e intellettuali) e infine pulpito dell’egemonia italica.

Pasolini e Zavattini durante le contestazioni alla Mostra del Cinema nel 1968 - Giacomelli/Asac

Politica e arti si intrecciano continuamente nella storia della Biennale, ma senza appiattirsi. Nei programmi del settore musicale, nato nel 1930, si registrano prime esecuzioni di “musica degenerata”: Schoenberg, Stravinskij, Hindemith, Bartòk. Quella delle “prime” importanti sarà una costante anche del dopoguerra, basti pensare alla creazione dell’Angelo di fuoco di Prokof’ev (1955, a compositore scomparso da due anni), il debutto di Intolleranza 1960 di Luigi Nono o ancora la presentazione nella Biennale del Dissenso del 1977 di autori come Denisov e Gubajdulina.

La disinvoltura con cui il fascismo fa propaganda con l’arte, senza la rigidità dei totalitarismi tedesco e sovietico, resta ogni volta sconcertante. Nel 1934 Casella chiama il dodecafonico Ernst Krenek con l’operina Cefalo e Procri in seguito alla richiesta di Mussolini di sostenere l’Austria minacciata dalla Germania nazista. Ma è proprio a Venezia che si salda l’Asse Roma– Berlino. Se Hitler visita la Biennale d’Arte nel 1934 (ordinando di rifare il padiglione tedesco in stile naziellenico), dal 1936 Goebbels è un frequentatore assiduo della Mostra del cinema e nella mondanità del Lido, ben frequentata dai gerarchi, si cementa la tragica alleanza. Eppure, di nuovo, alla rassegna fondata nel 1932 da Giuseppe Volpi (a cui è ancora intitolato il premio per i migliori attori), se vincono sempre film filogovernativi, in cartellone arrivano anche pellicole di Lubitsch, Ford, Renoir, Carné…

Con il dopoguerra la politica in laguna significa Guerra fredda e scontro per l’egemonia culturale. Nel 1948 espone per la prima volta Picasso e Peggy Guggenheim sbarca la sua collezione di arte americana. Visconti porta al Lido La terra trema, Senso e Rocco e i suoi fratelli: la vittoria gli è sempre negata, tra polemiche che arrivano alla rissa. Nel 1951, ed è tra i momenti istituzionalmente più tesi, scoppia il caso del visto negato a Bertolt Brecht, in arrivo dalla Ddr. La trazione americana della Biennale trionfa nel 1964 con il premio a Rauschenberg.

Il 1968 è l’anno decisivo. L’aqua granda della contestazione investe in pieno i Giardini. La Biennale diventa il campo di battaglia di movimento studentesco e operaio da una parte e forze dell’ordine dall’altra. L’arte si trova nel mezzo: di «violenza morale da parte dei protestatari» e «violenza fisica da parte della polizia» parla il telegramma con cui Gianni Colombo e Marcello Morandini annunciano il proprio ritiro. Le foto mostrano Luigi Nono ed Emilio Vedova guidare la contestazione, che finirà sotto i colpi di manganello in piazza San Marco. Gastone Novelli gira le sue tele contro il muro e vi scrive “La Biennale è fascista”.

Due mesi dopo le proteste si dirigono contro Luigi Chiarini (che nel ’38 firmò il Manifesto della Razza), direttore di una Mostra del cinema che aveva in programma Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene, Teorema di Pasolini, Partner di Bernardo Bertolucci. Il peso, ormai a sinistra, della politica sulla Biennale si fa sentire per tutti gli anni 70: nel 1974 ecco le pressioni cinesi e l’assedio dei filomaoisti locali contro la proiezione di Chung Kuo, Cina di Antonioni. E quando Carlo Ripa di Meana nel 1977 organizza la Biennale del Dissenso si trova a fronteggiare le pressioni di Mosca e del Pci, mentre all’interno del consiglio della Biennale si dimettono Gregotti e Ronconi e all’esterno figure come Argan (allora sindaco di Roma) si scagliano contro. A rendere possibile il progetto furono Craxi e i fratelli De Michelis.

Murales in Campo Santa Margherita per “Libertà al Cile”, 1974 - Asac

La richiesta del ’68 era che la Biennale cambiasse e così fu: mutando il corpo, non solo la pelle. Gli anni 70 sono un decennio di sperimentazione anche della forma espositiva, tra uscita dai Giardini per abitare la città, rassegne pluridisciplinari, elemento partecipativo. Sono Biennali non scontate tanto dal punto di vista politico che del linguaggio. Poi è l’epoca del postmoderno, la caduta del Muro, la globalizzazione e di una nuova normalizzazione dei formati espositivi.

La mostra si ferma al 1999. L’anno prima la Biennale, superando lo statuto degli anni 70, si era trasformata da ente parastatale e soggetto pubblico di diritto privato (divenuto fondazione nel 2004). Un cambio decisivo dal punto di vista organizzativo che coincide con l’epoca della grande illusione della fine della storia. Non è stato così. Eppure l’impressione che negli ultimi venti anni i percorsi di Biennale e storia si siano incrociati con meno vigore. Segno della fine delle ideologie, certo, e di una maggiore autonomia. O forse la Biennale resta ancora la scena di un teatro globale che non è più geopolitico ma segnato dal mercato e dal politicamente corretto. Da questo punto di vista la Biennale è ancora i campi elisi dello Zeitgeist.

Oggi non solo in Biennale non si contesta più ma la Biennale non è più contestata. Non si rimpiangono qui i gerarchi in orbace, i manganelli in piazza San Marco o il conformismo comunista. Eppure in questi ultimi lustri di una Biennale formalmente ineccepibile, oliatissima macchina organizzativa e fenomeno in costante crescita numerica nuovamente al centro dell’attenzione mediatica mondiale, non è stato raro il gusto dell’indistinto. La Biennale arti visive sembra aver seguito le sorti della città, sempre più parco a tema per un mercato turistico altamente differenziato. Nel 1975 il desolato Molino Stucky era oggetto di una mostra radicale con il coinvolgimento di trenta tra artisti e architetti, un progetto utopico e collettivo di riqualificazione culturale; oggi è un albergo di lusso: il che non è un male, ma è evidente che le prospettive sono molto differenti. L’augurio è che la riflessione su un percorso più che centenario, resa possibile da questa pausa forzata, diventi materia per l’elaborazione di una nuova Biennale capace di incrociare la storia, creare dibattito, scuotere la realtà.