L'inedito. La Beatrice di Gourmont sposa Dante con Platone
Henry Holiday, “Dante e Beatrice” (1884)
Figura quasi leggendaria della letteratura francese tra Otto e Novecento, Remy de Gourmont fece in tempo a impersonare le estreme istanze della poesia simbolista e ad accompagnare, attraverso la rivista L’Ymagier, gli esordi di Alfred Jarry e della cosiddetta Patafisica, guadagnandosi l’ammirazione di personalità altrimenti insospettabili come lo statunitense Ezra Pound. Nato in Normandia nel 1858 e morto a Parigi nel 1915, Gourmont è l’autore degli «scritti sulla poesia amorosa» ora raccolti da Medusa nel volume Dante, Beatrice e l’ideale femminile (traduzione di Claudina Fumagalli, pagine 136, euro 15,00), dal quale anticipiamo un ampio stralcio del saggio su Beatrice, Dante e Platone apparso originariamente nel 1883. Come osserva Pasquale Di Palmo nella sua documentata prefazione, il dantismo di Gourmont rappresenta un’applicazione del metodo di «dissociazione di idee» che lo stesso Gourmont così sintetizza: «O accettare le idee e le associazioni di idee così come vengono usate, o dedicarsi per proprio conto a nuove associazioni e, cosa ancor più rara, a dissociazioni di idee originali». Da qui, nello specifico, la proposta di rileggere la Commedia alla luce di un platonismo solitamente trascurato a favore dell’impianto scolastico-aristotelico che presiede al poema. Di Gourmont Medusa ha in catalogo il saggio Il latino mistico (2008), e i racconti dedicati a figure femminili raccolti sotto il titolo Colori (2009); mentre nella collana “A lume spento” di Mimesis è disponibile l’antologia poetica Litanie dei fiori, a cura di Marco Settimini (2018). (A.Zacc.)
Fra le creazioni femminili sbocciate nel cervello o nel cuore dei poeti, il tipo della Beatrice è sicuramente uno dei più belli, ma anche uno dei più enigmatici. Per gli uni è la donna idealizzata nel più puro e nel più disinteressato degli amori, una creazione del cuore; per gli altri è la personificazione della scienza o della teologia, nei confronti della quale Dante dirige tutti gli ardori del suo spirito. Alla fin fine qualcuno, come il poeta inglese Gabriele Rossetti, pensa che Beatrice non sia mai esistita, che sia solo l’eroina, creata di sana pianta, di un meraviglioso poema, che è stata cantata senza aver vissuto. Questa azzardata convinzione farebbe della vita letteraria di Dante una poetica menzogna, sublime, feconda, ma una menzogna non è accettabile, e nessuno di quegli eruditi che fanno della vita e delle opere di Dante il loro studio perpetuo, vi si è soffermato un istante. Beatrice è esistita, la testimonianza dei contemporanei è formale: il poeta la vide per la prima volta quando entrambi avevano otto anni, e da quel giorno, per la giovinetta, per la bambina, nacque in lui un amore che divenne un culto al quale consacrerà tutti i suoi pensieri. Beatrice si sposò, ma l’affetto, del tutto disinteressato, che il poeta nutriva per lei non venne meno, e quando morì, a venticinque anni, la pianse giurando che sarebbe vissuta eternamente nel suo ricordo e nel ricordo degli uomini: mantenne la parola. Quanto bella, quanto perfetta sia stata la giovane fiorentina, che nella Divina Commedia è idealizzata dal poeta al punto da non sembrare quasi più una donna: è diventata l’ideale stesso, la personificazione in un solo essere di tutto ciò che c’è di bello, di vero e di buono in una creatura umana.
È proprio per questo che è così complessa e che in lei si può vedere, secondo il punto di vista da cui ci si pone, l’immagine vivente della Bellezza, della Scienza e della Santità. Per arrivare alla conoscenza e al possesso di Dio, secondo l’idea cristiana, la sola via è la santità; secondo la filosofia scolastica, è la scienza, raccolta nella scienza delle scienze, la teologia; secondo Platone è la contemplazione della bellezza. Dante prendendo Beatrice come guida nella vita e nel suo poema, riunisce dunque subito in lei i tre mezzi naturali e soprannaturali che sono offerti all’uomo per raggiungere in presenza «la Potenza divina, la Saggezza suprema e l’Amore primordiale». Virgilio, la guida visibile del poeta all’Inferno e nel Purgatorio non è che il delegato di Beatrice, colui al quale la “divina donna” ha affidato il protetto sul quale lei veglia e che lei stessa andrà a ricevere alla porta del Paradiso. Beatrice come rappresentante della santità o della scienza è stata il soggetto di tanti studi e di tanti commentari, ma credo di mostrare questa preziosa figura sotto una nuova luce esaminandone soprattutto il suo terzo attributo, la bellezza. In diversi pun- ti della Divina Commedia si trova traccia di idee platoniche, più o meno modificate dal loro viaggio attraverso le opere dei Padri della Chiesa. È probabile che sia soprattutto con Boezio, dal quale ha tratto più di un aspetto, con sant’Agostino e con san Bonaventura, che Dante si è familiarizzato con certe teorie del filosofo greco, come quella a cui alludiamo, esposta nel Simposio. […] Dante attivando i precetti di Platone, meglio di lui, possiede la speranza formale di arrivare alla contemplazione della bellezza divina, eppure percorre un cammino più breve di quello consigliato dalla filosofia greca. La bellezza di Beatrice, sola, lo condurrà direttamente allo scopo supremo, senza che cambi il culto. È Beatrice stessa che si modificherà e che, dopo averlo sorretto nel retto cammino, con il fascino della sua bellezza terrestre, lo sorreggerà ancora, quando avrà abbandonato questo mondo, attraverso la bellezza nascosta della sua anima; attraverso questa seconda bellezza visibile solo agli occhi dello spirito: «Alcun tempo il sostenni col mio volto: / mostrando li occhi giovanetti a lui / meco il menava in dritta parte vòlto». E più avanti, quando il poeta è arrivato in Paradiso, sente cantare intorno a lui: «Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi», / era la sua canzone, «al tuo fedele / […] / Per grazia fa noi grazia che disvele / a lui la bocca tua, sì che discerna / la seconda bellezza che tu cele».
Ma Dante è poeta, più ancora che filosofo, e confessa che quando la vista della «donna bella e beata» gli è stata portata via, si è lasciato portare fuori dalla retta via: «Le presenti cose / col falso lor piacer volser miei passi, / tosto che ‘l vostro viso si nascose». Allora Beatrice gli muove malinconici rimproveri nei quali si sente scorrere non il rimpianto, ma il ricordo compiaciuto dei giorni vissuti sulla terra, durante i quali lei poteva offrire alla contemplazione del suo poeta il suo viso puro. Talvolta tu mi hai dimenticata, eppure, gli dice: «Mai non t’appresentò natura o arte / piacer, quanto le belle membra in ch’io / rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte». Tutte le volte che Dante parla di Beatrice pronuncia parole deliziose per caratterizzare la sua bellezza. Ora esalta la dolcezza della sua voce «che mi disseta con le dolci stille», ora il suo sorriso: «raggiandomi d’un riso / tal, che nel foco faria l’uom felice». […] Occorrerebbe un lungo lavoro per giungere a districare completamente questa personificazione dalle altre due, talmente Beatrice è segnata al tempo stesso dal suo triplo carattere. Sarebbe lo stesso possibile? L’idea platonica che ho indicato nella Divina Commedia non vi compare che allo stato di vaga reminiscenza e talmente aggrovigliata nei molteplici prestiti del poeta da tutte le conoscenze umane che sarebbe forse esagerarne l’importanza piuttosto che esporla lungamente. Tuttavia questa concezione della bellezza immutabile nella sua essenza, trasformantesi dal visibile all’invisibile e fino ad arrivare alla bellezza, unica e primordiale, è talmente al di fuori delle idee del XIX secolo che mi è parso interessante segnalarla. Un po’ più tardi, con il progresso degli studi greci, che cominciano seriamente cinquant’anni dopo la morte di Dante, si troverà più facilmente nei poeti qualche traccia della filosofia socratica. Si vedrà Petrarca, per esempio, considerare le cose mortali come una scala verso il Creatore, «che son scala al Fattor».
(Traduzione di Claudina Fumagalli)