Musica. Vent'anni senza Sinopoli, la bacchetta magica di un rabdomante
Il direttore d'orchestra Giuseppe Sinopoli, scomparso il 20 aprile del 2001 a soli 54 anni
«Non colleziono oggetti, colleziono idee», diceva Giuseppe Sinopoli, il compositore e direttore d’orchestra scomparso vent’anni fa. Era il 20 aprile 2001, stava dirigendo Aidaa Berlino; una serata particolarmente densa per lui di emozioni e ricordi, dedicata alla memoria di Götz Friedrich, il regista tedesco con il quale aveva a lungo collaborato. Poco dopo l’inizio del terzo atto, il cuore di Sinopoli si è fermato. Aveva 54 anni. «Sono nato il 2 novembre del 1946 a Venezia, ma considero come autentica terra natale la parte orientale della Sicilia, che ancora oggi misteriosi legami uniscono con la originaria cultura degli antichi greci». Venezia, la Mitteleuropa, la Sicilia, il mito. Amava i contrasti, sapeva che la dialettica genera idee, impulsi, conquiste. Nel 1971 si laurea in Medicina e Chirurgia a Padova con una tesi in antropologia criminale dal titolo Devianza e momenti criminali nella mediazione dell’opera d’arte. Un titolo che annuncia un’intuizione profonda del suo agire nella musica: l’arte come mediazione necessaria, come luogo ideale per narrare, manifestare il disagio, le pulsioni più segrete e devastanti. Dieci anni più tardi, dopo la rappresentazione al Teatro di Monaco di Baviera della sua opera dedicata a Lou Salome – affascinante figura di scrittrice e psicoanalista tedesca di origine russa, vissuta tra fine Ottocento e primo Novecento – decide che non avrebbe più composto musica, limitandosi all’attività di direttore.
Eppure, il suo catalogo di compositore era nutrito, l’opera era stata accolta con estremo interesse. E allora perché? «Perché oggi la composizione musicale è entrata in una fase ellenistica, di decadenza. Il passaggio da questo secolo al prossimo avviene nell’horror vacui. Predomina un grande eclettismo, ma l’eclettismo è uno dei tipici figli del vuoto». Smette di comporre, non di studiare archeologia: «L’indagine sul mondo antico ha in fondo sostituito l’attività di compositore. Si tratta di un’indagine su un mondo i cui messaggi, i cui approcci con l’esistenza contengono stratificazioni oggi purtroppo irriconoscibili, ma che danno della vita una dimensione per me insostituibile». Il 23 aprile 2001, alla Sapienza di Roma, Sinopoli avrebbe dovuto discutere la tesi in archeologia, relatore il professor Paolo Matthiae. Argomento era la migrazione di alcuni modelli architettonici dell’antica Mesopotamia dall’area templare sacra a quella regale, cardine del progetto politico di quella dinastia regnante di divinizzarsi di fronte al proprio popolo. Gli verrà assegnata la laurea in memoriam, la tesi sarà pubblicata nel volume Il Re e il Palazzo. La sua collezione archeologica è oggi esposta al Museo Aristaios, in una sala del Parco della Musica di Roma. Prediligeva la maniera ieratica e pacificata con cui gli egizi avevano scelto di rappresentare la morte: un messaggio talmente immediato da indurre Verdi – Sinopoli era persuaso della verità di questa relazione – a scrivere il finale di Aida, quel sacrificio di lei che è catarsi, liberazione e non tragedia, dopo aver visitato il Museo egizio di Firenze.
La generosità dell’interprete diventava generosità umana nei progetti mirati a difendere nuove realtà musicali: frequenti i concerti con l’Orchestra Giovanile della Scuola di Musica di Fiesole; intenso il rapporto con il Sistema de Orquestas y Coros Juveniles e Infantiles del Venezuela. Di tale collaborazione rimane traccia nell’esperienza italiana ispirata a quel modello, l’Orchestra giovanile Giuseppe Sinopoli. La decisione che nel 1998 lo aveva portato a impegnarsi all’Opera di Roma, presentando un’innovativa ipotesi di ricostruzione e di estesa partecipazione civile alla vita di quel Teatro, era destinata a infrangersi contro la resistenza di consolidati interessi corporativi, forti in Italia, fortissimi tra le realtà contrattualmente più tetragone. Era affascinato dalla capacità della musica di Richard Wagner, di cui è stato interprete di riferimento, di associare simultaneamente situazioni diverse, diversi strati della coscienza. In Il mio Wagner, il libro che raccoglie le sue riflessioni sullaTetralogia, rileva che al termine dell’intera saga l’anello ritorna nel grembo del fiume Reno, da dove all’inizio, per soddisfare l’avidità mai sazia degli uomini, era stato strappato: «La natura ha la prima e l’ultima parola, è l’inizio e la fine. Noi non siamo altro che delle componenti organiche di questo continuo fluire della natura». Amava tre versi dal Sigfrido. Li canta Erda, dea generatrice della Terra, e si rivolge a Wotan, il capo degli dei, che la rimprovera perché sembra estranea agli affari del mondo e spesso dorme. Lei risponde così: «Il mio sonno è sognare, / il mio sognare meditare, / il mio meditare governare il sapere». Erda riflette, vuole capire le ragioni e le conseguenze dei fatti e delle azioni. Quando si chiedeva al maestro che cosa unisse le traiettorie della sua ricerca intellettuale e artistica, rispondeva: «L’indagine del profondo». Parsifal a Venezia è il libro – «un diario dell’anima, più che un romanzo» – che racconta il suo smarrirsi e ritrovarsi nel racconto mitico di Wagner.
Numerose le iniziative per ricordarlo: una serie di concerti visibili su Rai 5 con l’Orchestra Sinfonica Rai da lui diretta; la traduzione, per le edizioni dell’Accademia di Santa Cecilia, della biografia della studiosa tedesca Urlike Kienzle; un libro annunciato da il Saggiatore che affronta i molteplici aspetti della sua personalità; un convegno a settembre dell’Università La Sapienza; un incontro online, il 20 aprile, promosso dalla Fondazione Levi di Venezia; la prima esecuzione assoluta di un suo Lied giovanile d’amore, il 29 aprile sul canale youtube dell’Accademia Filarmonica Romana, alla quale è stato molto legato. L’Orchestra della Staatskapelle di Dresda, che ha diretto per molti anni, dedica alle sue composizioni un concerto monografico, trasmesso in streaming il 23 aprile. Sinopoli, che ha lasciato un’imponente discografia, amava ricordare che «nella cultura egizia il cuore del defunto veniva posto su un piatto della bilancia davanti ad Osiride, sull’altro piatto c’era la piuma della dea Maat, simbolo della verità e della giustizia. Solo se il suo cuore risultava leggero come la piuma, il defunto aveva diritto alla vita nell’oltretomba. Il cuore degli uomini oggi è un po’ pietrificato». Queste sue folgoranti persuasioni e riflessioni persistono nell’intensità di un ricordo luminoso.