Letteratura. L’opera di Attilio Bertolucci che declina il Novecento in versi

Attilio Bertolucci davanti alla porta d’ingresso centrale della sua casa di Casarola
La casa del poeta di Paolo Lagazzi è il Novecento in purezza. In ogni senso, compreso quello che oppone la purezza alla pochezza. Pubblicato per la prima volta da Garzanti nel 2008, il libro torna ora da La Nave di Teseo (pagine XVI+224, euro 20) in un’edizione arricchita da una serie di contributi aggiuntivi: oltre alla bella prefazione di Emanuele Trevi, ci sono le testimonianze di Bernardo e Giuseppe Bertolucci, che del «poeta» in questione furono i due figli anagrafici. Il terzo, come giustamente osserva Trevi, è lo stesso Lagazzi, che può a buon diritto meritarsi la qualifica di figlio putativo. Ma a questo punto, per quanto la storia sia in sé semplice, un po’ di ordine fra personaggi e interpreti andrà stabilito.
Partiamo dall’autore del libro, che ne è anche il coprotagonista: nato a Parma nel 1949 e oggi critico letterario affermato, negli anni Settanta Lagazzi è uno studente di Lettere all’Università di Bologna. Segue le lezioni di Luciano Anceschi, studioso sopraffino che nell’arco di pochi decenni è passato dalla canonizzazione della poesia ermetica al patrocinio della Neoavanguardia. Lagazzi chiede ad Anceschi di essere suo relatore per la tesi di laurea, l’argomento della tesi non interessa veramente ad Anceschi, ma l’architrave del metodo di Anceschi consiste nel rifiuto di ignorare ciò che esiste.
Dato che esiste Attilio Bertolucci, poeta parmense come Lagazzi, non propriamente ermetico né tanto meno avanguardista, ecco che Anceschi acconsente al progetto e Lagazzi si mette sulle tracce di Bertolucci, che però da tempo non risiede più a Parma. Vive a Roma, ha casa a Tellaro, nel golfo della Spezia, e ha casa a Casarola, sul crinale d’Appennino che separa l’Emilia dalla Liguria. Quella di Casarola, in effetti, è la casa di famiglia, edificata a fine Settecento dall’antenato Pietro. È «la casa del poeta», insomma, alla quale nell’estate del 1973 si presenta titubante Lagazzi per incontrare Bertolucci. Lo trova in giardino, intento a scribacchiare su un quadernone il cui contenuto rimane al momento misterioso. Con il senno di poi, Lagazzi si persuade che su quei fogli si stesse depositando la prima stesura di La camera da letto, il poema narrativo o romanzo in versi destinato a diventare il capolavoro di Bertolucci. Il quale – per continuare a fare chiarezza – in provincia di Parma era nato nel 1911, aveva esordito giovanissimo con Sirio nel 1929, nel 1934 aveva confermato le sue doti con Fuochi in novembre e poi, nel dopoguerra, aveva dispiegato la straordinaria fioritura di La capanna indiana (1951) e Viaggio d’inverno (1981), la raccolta da cui Lagazzi resta folgorato. Tutto il resto è, in un certo senso, la materia di La casa del poeta.
Novecento in purezza, dicevamo. E come il Novecento inesauribile, irripetibile. Quando mette mano a questo libro, che non è solamente un saggio critico e non può essere ridotto a memoriale, Lagazzi ha già curato il “Meridiano” Mondadori dedicato a Bertolucci, uscito nel 1997. Bertolucci è invece morto nel 2000, come a ribadire la predilezione per i confini, le soglie, le linee di faglia. Uno dei suoi più noti ritratti fotografici, qui finemente commentato dallo stesso Lagazzi, lo cattura sotto l’architrave della porta d’ingresso di Casarola, né di qua né di là, come si addice a un poeta che sia stato anche traduttore di poeti e prosatori: un esperto nel transito da una lingua all’altra, ma anche dalla letteratura alla vita e viceversa.
In definitiva, è questa adesione della parola alla realtà che stabilisce il contatto iniziale e il successivo sodalizio tra Lagazzi e Bertolucci. Il più giovane va a conoscere il più anziano, peraltro inseparabile dall’amatissima moglie Ninetta, e dal più anziano viene a sua volta riconosciuto. Come un figlio? La versione suggerita da Bernardo (proprio lui, il regista di Novecento e L’ultimo imperatore, il più famoso tra i due fratelli, senza nulla togliere al talento cinematografico del troppo trascurato Giuseppe) è in parte più maliziosa, come se in effetti Attilio fosse già alla ricerca di un critico e forse biografo d’elezione. Ruolo che Lagazzi svolge egregiamente, come confermano appunto il “Meridiano” e questo stesso volume, per tacere degli innumerevoli altri contributi che vanno a comporre una bibliografia quasi ossessiva. Ma il legame è più profondo, come dimostra la sezione portante di La casa del poeta, e cioè il racconto delle “ventiquattro estati” trascorse da Lagazzi a Casarola. Calcolo in qualche misura erratico, come erratica è l’esperienza umana.
Questo e altri elementi (e diciamo intenzionalmente “elementi”, non “dettagli”) è bene che siano lasciati all’intraprendenza di chi leggerà o rileggerà il libro, nel quale Lagazzi ha integrato una nota di lieve caratura meditativa. Ciò che più conta è il racconto di un giovane che scopre sé stesso nel dialogo con un maestro riluttante e sorridente, e scoprendo sé stesso diventa adulto.
Le lunghe passeggiate nei boschi attorno a Casarola, la frequentazione della piccola locanda del borgo, la familiarità che si instaura con i compaesani del Barnard (per la gente del posto è il padre di Attilio, non il figlio cineasta) sono solo alcuni dei capitoli di questo romanzo di formazione alla letteratura e alla vita che Lagazzi compone come felice rispecchiamento di La camera da letto, un poema che è un avanzare verso il passato così come La casa del poeta è un reimmergersi impetuoso nel futuro. A volte, ascoltando la voce di Lagazzi che rievoca la voce di Bertolucci, si ha l’impressione che, in fondo, un uomo così avrebbe anche potuto non scrivere neppure una riga e un discepolo lo avrebbe trovato comunque, perché la saggezza non si misura in numero di pubblicazioni, né la poesia in premi letterari.
Fortuna vuole che Bertolucci abbia scritto, e abbia scritto versi come questi, che da soli giustificano l’ammirazione di Lagazzi e di chiunque non si sia stancato di credere in tutto quello in cui il Novecento ha creduto: «Datemi, sterpi e sassi, un passaggio / per liberarmi, / fate che io ritrovi una strada / battuta e aperta, / profumata dai cigli esposti a mattino / per una moltitudine inebriante / di garofanini campestri / svegli presto e di già / un po’ appassiti, eppure / lieti, senza memoria né speranza, / di un sole che sta / per lasciarli avanzando il meriggio / e tuttavia li riscalda e illumina ancora».