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Novecento. L’impronta delle donne nella Dichiarazione universale dei diritti umani

Francesco Bellino venerdì 28 giugno 2024

Eleanor Roosevelt con la Dichiarazione universale dei diritti umani, novembre 1949

Il 10 dicembre del 1948 fu firmata la “Dichiarazione universale dei diritti umani”, definita da san Giovanni Paolo II «pietra miliare posta sul lungo e difficile cammino del genere umano» e come «una delle più alte espressioni della coscienza umana». Alla sua stesura contribuirono anche otto donne da tutto il mondo. Il tempo aveva cancellato il loro contributo. È stata Rebecca Adami, ricercatrice presso le Università di Stoccolma e di Londra, a togliere dall’oblìo la loro azione per la difesa della dignità della persona umana nel suo libro Women and the UniversalDeclaration of Human Rights (Routledge, 2018). In questa linea di ricerca e di divulgazione si inserisce il bel libro di Enrica Simonetti, Le donne della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (Manni. Pagine 104. Euro 13,00). Giornalista e scrittrice, Simonetti è caposervizio alla “Gazzetta del Mezzogiorno” ed è studiosa attenta e sensibile alle tematiche femminili, alla storia sociale dei diritti e del lavoro.

Chi sono queste donne? Con finezza ed agilità espositiva l’autrice ci presenta le loro avventure e le lotte quotidiane per affermare la dignità umana. Come perle brillano i loro nomi.

Ad Anna Eleanor Roosevelt (1884-1962) il Consiglio delle Nazioni Unite pensò di affidare la presidenza della Commissione Diritti umani. Giustamente chiamata “First Lady of the world”, è stata a fianco del marito dal 1933 al 1945 Franklin Delano Roosevelt, l’uomo del New Deal, eletto per ben quattro volte alla Casa Bianca, al quale - a soli 39 anni - fu diagnosticata una forma di poliomielite. Anna Eleonor è stata sempre al suo fianco come moglie-madre-attivista dei diritti umani. Per la sua iscrizione all’American Youth Congress e le sue esplicite e severe condanne dell’apartheid, la First Lady era monitorata dalla FBI, che le aveva riservato un fascicolo di 3.600 pagine, per timore di “attività comuniste”.

Hansa Jivraj Mehta (1897-1995), attivista, scrittrice, filosofa e femminista indiana, aveva studiato anche in Inghilterra, laureandosi in Sociologia e Giornalismo, dopo aver conseguito la laurea in Filosofia in India nel 1918. Nel 1922 conosce Gandhi e la poetessa femminista Sarojini Naidu. Ha giocato un ruolo fondamentale nell’indipendenza del Paese, organizzando il picchettaggio davanti ai negozi che vendevano merce inglese. Al tavolo dell’Onu fa sentire la sua voce. Dobbiamo a lei la modifica dell’articolo 1. Hansa non voleva che si scrivesse «All men are born free and equal» («Tutti gli uomini sono nati liberi e uguali»), ma propose ed ottenne che l’articolo fosse corretto in «Tutti gli esseri umani sono nati liberi e uguali».

La dominicana Minerva Bernardino (1907-1998), laureata in Scienze, entrò nel Servizio civile. Svolse lavori part-time, per pagarsi studi ed alloggi. Anche nel Servizio civile venne pagata meno dei suoi colleghi uomini, come era di regola. Militò nei gruppi contrari alla dittatura nascente del “generalissimo” Rafael Trujillo, autore di massacri degli immigrati haitiani. Approdò anche all’Unicef, dove divenne vicepresidente.

La pakistana Begum Shaista Ikramullah (1915-2000) fu la prima musulmana a conseguire il dottorato all’Università di Londra e una delle prime musulmane indiane ad abbandonare il velo. Nella Commissione si fece portavoce dell’angosciosa piaga dei matrimoni forzati e delle spose-bambine, affinché l’articolo 16 fosse dedicato agli uguali diritti nel matrimonio.

La danese Bodil Begtrup (1903-1987) è stata nel 1955 la prima ambasciatrice donna della Danimarca, che le ha dedicato nel 2022 un francobollo celebrativo. Decisivo è stato il suo impegno per la famiglia e i diritti civili, per l’educazione infantile, per le minoranze e la dignità abitativa.

La francese Marie-Hélène Lefaucheux (1904-1964) non fu soltanto una coraggiosa partigiana, una paladina dei diritti delle donne, ma anche l’”autrice” dell’articolo 2 della Dichiarazione. Il suo carattere ardimentoso la portò a lanciarsi in una corsa folle in bicicletta al seguito del treno in cui era deportato il marito. Le fu conferito la Légion d’honneur e fu eletta come senatrice nella Quarta Repubblica. Perse la vita in un disastro aereo negli Usa.

L’indiana Lakshmi N. Menon (1899-1994), attivista e ministra degli esteri del suo Paese con il governo Nehru. Si è battuta contro l’analfabetismo, le discriminazioni sessuali e i ruoli familiari di sudditanza.

La bielorussa Evdokia Uralova (1902-1985), insegnante di Storia e ministra dell’Istruzione nel governo bielorusso del 1946, ha dato un contributo fondamentale alla parità salariale non solo delle donne, ma di tutte le persone a prescindere dalla loro appartenenza, come recita l’articolo 23 della Carta: «Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad uguale retribuzione per eguale lavoro».

Qual è il denominatore comune di queste otto donne? È la preparazione culturale, scrive Simonetti: «Ciascuna di loro, con diverso background, ha potuto crescere rendersi parte attiva di una simile “rivoluzione” anche mettendo a frutto l’impegno nello studio: la conoscenza come prima forma di pensiero autonomo e strutturato». La Dichiarazione universale dei diritti umani, concludiamo con le sue appassionate e meditate parole, «non è una legge, non è una Costituzione, ma è l’essenza della dignità umana. E come tale va difesa».