Lirica. Tornano a Venezia le «metamorfosi» di Krenek
Dopo ottantatré anni torna a Venezia Cefalo e Procri, breve opera misconosciuta di Ernst Krenek e Rinaldo Küfferle, che proprio nella città lagunare ebbe la prima e unica rappresentazione italiana. La ripresa dell’opera – al Teatro Malibran dal 29 settembre al 7 ottobre – è importante non solo per il titolo, ma per Krenek stesso, musicista dalla fama ambigua, spesso indicato tra i nomi più rilevanti del 900 musicale, ma di cui poi si fa fatica a elencare le composizioni – numerosissime – proprio perché poco eseguito e scarsamente inciso.
Il compositore boemo, nato nel centro geografico e musicale dell’Europa musicale (a Vienna nel 1900) e morto, come molti colleghi costretti a emigrare perché autori di “musica degenerata” secondo il regime nazista, negli Stati Uniti, è eminente rappresentante della musica cosiddetta “atonale” (meglio sarebbe dire a tonalità indefinita). Allievo di Mahler e Schreker, con un orecchio sempre attento a cogliere la musica che girava intorno, attraversò tutti gli stili, avvicinandosi alla dodecafonia, passando per il neoclassicismo di ascendenza stravinskiana, alla musica elettronica e persino incamerando – fu tra i primi a farlo insieme a Gershwin e Weill – il jazz nella composizione colta: Jonny spielt auf (Jonny attacca a suonare) è l’esempio principe e anche la sua opera più nota. Cefalo e Procri, dalle Metamorfosi di Ovidio, della durata di mezz’ora, è certamente tra i suoi lavori meno celebri e ancor più per questo è meritoria l’iniziativa della stagione della Fenice. L’opera sarà preceduta da due brani di Silvia Colasanti, Eccessivo il dolor quand’egli è muto e Ciò che resta, il primo dei quali è stato scritto proprio per essere messo in relazione all’opera di Krenek e viene eseguito per la prima volta. La regia di questo spettacolo che si presenta come unitario è stata affidata a Valentino Villa, anche attore e regista di prosa, al suo debutto nella lirica.
Come spiega l’assenza di quest’opera, di cui lo stesso Krenek parla poco, dai teatri per così tanto tempo?
«L’origine dell’opera è d’occasione. Si trattava cioè di una commissione che Alfredo Casella fece a Krenek per la Biennale Musica del 1934. Posso anche ipotizzare che sia stata oscurata da titoli più famosi. A ogni modo, l’aria che si respirava in quegli anni la conosciamo e quasi tutta la musica di quegli anni, quando non conforme ai gusti del regime, è stata bollata come degenerata. Lo spostamento appena successivo di Krenek negli Stati Uniti non ha certo aiutato».
C’è una differenza tra la storia di Cefalo e Procri narrata da Ovidio e quella di Küfferle…
«In Ovidio la storia trova il finale nell’uccisione di Procri da parte di Cefalo; in Küfferle, Procri non muore perché le divinità la salvano. È per un sospetto infondato che, nelle Metamorfosi, Procri muore: temendo il tradimento del marito, lo segue nascondendosi in un cespuglio; il fruscio delle foglie induce Cefalo a pensare a un agguato, così scaglia una freccia che uccide la moglie. Nella storia musicata da Krenek, Diana devia la freccia. Krenek chiama la piccola opera “moralità pseudoclassica” poiché l’intento del monito rimane: l’insegnamento fondamentale della storia infatti non è tanto il rischio dell’adulterio, quanto le conseguenze della gelosia e l’insinuarsi del sospetto, fondato o meno che sia. L’idea propugnata dunque da Küfferle è l’equilibrio che bisogna mantenere tra ragione e passione (sentimenti estremi rappresentati dalle dee Diana e Aurora), ossia una virtù mediana (Crono)».
Può illustrare l’allestimento?
«Il punto di partenza sono state le didascalie già presenti nel libretto e il fatto che il punto di vista pensato da Küfferle sia quello degli dèi, poi mi sono sentito libero dalle tradizioni della messa in scena. Innanzi tutto ho cercato di pensare ai brani della Colasanti e di Krenek come facenti parte di un unico spettacolo, come se fossero due racconti che dialogano tra loro. Eccessivo il dolor quand’egli è muto è infatti una variazione sul Lamento di Procricomposto da Francesco Cavalli a metà ’600. Sulla scena lo sforzo maggiore è stato l’organizzazione dello spazio che è doppio. È una sorta di laboratorio: da un mondo si vede, attraverso una finestra, un altro mondo – come fosse un diorama – in una relazione reciproca tra interno ed esterno. Aurora lancia una sfida a Diana provando a conquistare Cefalo, però non ho messo in scena gli dèi in quanto tali, bensì degli uomini che compiono un esperimento su altri uomini, come creando dei mondi fittizi (una lieve ispirazione è arrivata dalla serie televisiva Westworld). Non è il sovrannaturale dunque a governare, ma il potere. I potenti (metaforicamente gli dèi) agiscono sui più piccoli uomini».
La musica contemporanea ancora oggi ricorre al mito anche per raccontare l’attualità. Perché?
«Il contatto con il mito, nella mia esperienza, mi fa reagire in maniera automatica: la storia del mito mi dà subito il significato, senza il bisogno dover narrare un avvenimento attuale. Un lavoro come questo, che risale a un secolo fa e parla di un mito senza tempo, mi dice qualcosa che mi riguarda moltissimo. Forse il mito è come una struttura archetipica che invece di andare a interrogare la propria testa risuona col Dna. Come se ci precedesse».