Ogni epoca spiritualmente agitata ospita cristiani scapigliati, così come apologeti di Gesù che nessuno si attendeva. Il raffinato filosofo e storico delle idee polacco Leszek Kolakowski (1927-2009), dopo aver rinunciato ai panni d’intellettuale organico comunista, divenne da esule fin dagli anni Settanta un ospite fisso di riguardo delle grandi università anglosassoni. Capace di scrivere perfettamente in inglese, tedesco e francese testi magistrali mai privi di humour, era ammirato per il percorso di dissidente sfociato nei tre tomi di
Nascita, sviluppo, dissoluzione del marxismo (usciti in Italia nei primi anni Ottanta per SugarCo, mentre in Francia il terzo resta ancora in attesa), per i penetranti saggi su positivismo e modernismo, per l’eclettico e quasi provocatorio credo civile di 'conservatore, liberale e socialista', persino per acutissime 'opere leggere' come
Piccole lezioni su grandi filosofi (Colla, 2010), ma pure per gli angoli e sentieri originali da cui condusse negli anni un personale assedio ai grandi interrogativi metafisici di sempre, compreso il più ritirato e apparentemente inespugnabile: «Perché c’è qualcosa e non nulla?». Di Dio e del cristianesimo, Kolakowski molto s’interessò, anche in opere come
Orrore metafisico e
Se Dio non esiste, tradotte nel 1990 e nel 1997 per il Mulino. Testi dove prevale l’approccio storico o un piglio filosofico scettico, da fiero erede di Hume e Bertrand Russell. Sempre pudicamente nascoste, invece, sono rimaste le direzioni dei turbini dell’anima. Ma i turbini c’erano, in questo grande polacco non battezzato poco più giovane di Giovanni Paolo II, che lo invitò più volte ai colloqui estivi di Castel Gandolfo. Un filosofo citato spesso pure da Benedetto XVI, soprattutto a proposito dell’opzione di vivere, anche da non credenti, «come se Dio ci fosse». E adesso, dell’interiorità di Kolakowski svela forse non poco un saggio inedito, ritrovato postumo dalla moglie Tamara e appena pubblicato dalla 'rivista politica e intellettuale'
Commentaire, fondata da Raymond Aron e ritrovo dei liberal francesi, ma non solo. In francese, 'decifrato' pazientemente da moglie e figlia, non datato, il manoscritto risalirebbe agli anni Ottanta o Novanta. E come la lingua scelta, pure il titolo originale sembra un indizio cruciale: 'Gesù ridicolo?'. Questo è invece il titolo, più neutro, dato dalla rivista: 'Gesù. Saggio apologetico e scettico'. Proprio perché di un’apologia di Gesù e del cristianesimo si tratta. E tanto luminosa e per così dire 'sincera' che il solito scetticismo si riduce a una patina più sottile che mai. Per lo storico Alain Besançon, che ha ricevuto dalla Polonia e introdotto il saggio, «mai il filosofo aveva esposto apertamente delle parti così segrete, così personali del suo pensiero». Insomma, «questo testo non è testamentario, e nondimeno ne ha l’accento ». Il professore approdato a Oxford e Yale sembra lasciare il posto a un altro Kolakowski. Come capita in certe opere scritte di getto, che si lasciano poi nei cassetti. Forse perché troppo ha galoppato la penna, senza gli usuali codici accademici o altre protezioni e armature di maniera. «Penso al Gesù autentico, e questo significa: autenticamente, realmente e inalienabilmente presente nella nostra storia», precisa in apertura il filosofo. Le questioni sull’uomo Gesù, quelle paleografiche e persino teologiche sono accantonate (almeno negli intenti dell’incipit…) a favore di un approccio cristologico della presenza reale di Gesù, per due millenni lievito di civiltà. Le domande chiave dello scritto giungono subito, pressanti e dirette: «La nostra cultura può sopravvivere dimenticando Gesù? Si può credere che mettendo al bando Gesù, il nostro mondo crollerà? Perché abbiamo bisogno di Gesù?». Kolakowski sviluppa allora la sua apologia, cominciando a far roteare concetti e danzare argomenti in una coreografia di nomi, confronti, analogie, aneddoti che a tratti stordisce. «Fu Dio? Non ne so nulla. Ma se un uomo divino è mai vissuto sulla terra, è Lui», scrive, senza poi più rinnegare la maiuscola. Kolakowski si tuffa allora nella «vergogna di essere cristiano», con stoccate quasi violente, che possono giungere solo da molto in fondo, tanto sono intrise di una specie di amarezza: «È vergognoso essere cristiano. Sembra che nelle facoltà di teologia l’ultima cosa di cui si sente parlare, è di Dio: si parla di simboli religiosi, di giustizia sociale, d’impegno, della dimensione storica. Che spettacolo! Il secolo dell’illuminismo, quello del razionalismo, sta crollando, le luci illuministiche si spengono dappertutto, salvo nelle Chiese e presso i teologi. Ma sappiamo che Egli ha ragione. Sappiamo che non esistono soluzioni puramente tecniche o organizzative alle preoccupazioni principali dell’umanità. Esigono ciò che Giovanni Battista chiamava
metanoia, il cambiamento di spirito. Questo cambiamento, per definizione, non si lascia produrre tecnicamente. Consiste nel riconoscere che le radici del male sono in noi, in ciascuno di noi, prima di prendere corpo nelle istituzioni e nelle dottrine». Il bene e il male che si dispiegano nell’Apocalisse, dunque: «Ed è per questo che la coscienza apocalittica di Gesù, lungi dall’aver perduto il suo significato per il nostro mondo, fonda la nostra speranza nella sua sopravvivenza». Come vagoni, escono dal tunnel interiore di Kolakowski gli altri temi chiave dello scritto, che sono altrettanti pilastri del messaggio di Gesù e poi del cristianesimo: l’intimo riconoscimento della colpa, il giusto equilibrio fra profano e sacro (in modo da schivare sempre derive totalitarie o teocratiche), la proficua 'percolazione' della morale cristiana nella filosofia implicita degli Stati e degli altri grandi sistemi politici. Poi, in un breve dialogo fra un apologeta di Gesù e uno scettico, palese sdoppiamento interiore, l’ultima parola è data al primo, che smonta così ogni rigido scientismo e stretto razionalismo sulle cause ultime: «La presenza di segni è tanto impercettibile senza la fede che la loro assenza totale; l’assenza di segni è solo la deduzione del credo razionalistico; quest’ultimo è una teoria normativa che definisce la scienza definendo le sue procedure legittime. Senza questo credo, la scienza moderna non sarebbe sorta; non vi è ragione di credere che esso definisca allo stesso tempo tutta la sfera della verità accettabile». Silenzio. Si passa a un nuovo paragrafo, soprattutto per criticare il teologo luterano tedesco Rudolf Bultmann, 'modernista', che Kolakowski accusa di aver epurato il cristianesimo (come tanti altri) togliendogli il sapore. E giungono poi le 'congetture' conclusive: «Dopo secoli di diffusione dell’illuminismo, ci siamo risvegliati di colpo nello sgomento culturale e mentale, spaventati di fronte a un mondo che sembra perdere la sua eredità religiosa. La nostra paura è ben giustificata». Perché, secolo dopo secolo, il mistero della Resurrezione, ovvero l’amore cristiano, ha irrorato, come per un’oasi, l’universo della civiltà umana: «Che un universo nuovo sia spuntato dalle mani deboli e non ornate di un ebreo di Galilea, non è comprensibile se cerchiamo di situarci nella sua epoca. La radice di questa mutazione, la cristianità ha sempre concordato su questo punto, è l’amore. Non attraverso l’idea dell’amore, ma attraverso una dottrina: l’amore in quanto fatto, in quanto energia reale che Egli ha versato nel mondo e di cui quel poco che gli uomini portano in loro è un riflesso, certo indebolito, imperfetto, mischiato al male, ma sempre vivo».