Reportage. Kenya, viaggio nella terra dei talenti della maratona
Studenti universitari a Nairobi durante un allenamento.
Il sole ha appena fatto capolino a due passi dall’equatore, ma le strade sabbiose pullulano già di corridori. Professionisti in allenamento, pastori e agricoltori diretti ai campi, adolescenti in marcia verso la scuola. È un’alba di corsa alla periferia di Eldoret, città da 200mila abitanti a tre quarti d’ora di volo da Nairobi, l’eterna capitale keniana del cross. Il cast del “Discovery Kenya”, manifestazione inventata nel 1991 dal medico italiano Gabriele Rosa, è variegato: dai bambini che non hanno mai indossato un paio di scarpe ai vincitori di medaglie internazionali. Il premio finale, una maglietta, diventa il cimelio da mostrare in classe il giorno successivo. Sì, perché la scuola è il cuore della vita quotidiana dei giovani corridori, i quali si allenano camminando a passo svelto dal letto al banco. I più bravi diventeranno famosi, gli altri ci avranno provato. Intanto durante la pausa tra una lezione e l’altra ci si diverte correndo sull’erba, incuranti del temporale che innaffia fuori stagione colli e monti sopra quota duemila. Più giù, nel cuore della Rift Valley, di acqua non c’è traccia.
Così per rompere la calura si piantano “gli alberi dell’ombrello”, come li definiscono i contadini, mentre imbandiscono la tavola con le specialità locali accompagnate dall’immancabile tè keniano. Il training camp di Londiani ospita 26 giovani atleti, soprattutto ragazze. Tra di loro Sandra Chebet, 19 anni già argento ai Mondiali allievi sui 2000 siepi, il cui sogno è diventare professionista: «Voglio vincere il titolo iridato ed essere la più brava al mondo». Unica femminuccia tra cinque fratelli, Sandra è la classica donna che lotta per farsi spazio in un Paese dove nascere maschio è un vantaggio. «Per ottenere qualcosa bisogna sacrificarsi. Lo sto facendo sperando che il mio sogno si avveri», racconta mentre si avvicina alla mamma, «la mia più grande sostenitrice ». La signora Rachel ha lasciato che la figlia andasse via di casa: «Insieme a mio marito abbiamo assecondato la scelta di Sandra, perché ci fidiamo del suo allenatore. Abitiamo a 3 chilometri dal camp, così possiamo vederla spesso». Storie di donne in una nazione dai ritmi lenti, dove si vive col sorriso sognando un avvenire migliore. Piccole ragazze che crescono, ma anche signore mature che hanno sacrificato il lavoro per la famiglia. È il caso di Emily, la moglie dell’allenatore della Chebet: «Sono un’ex atleta e dopo il ritiro facevo la poliziotta. Ho seguito mio marito e ora vivo nel camp. È stata una mia scelta, lui non mi ha imposto nulla».
Di fronte a un bivio si è trovata Vicody, 22 anni, volontaria all’Agenzia antidoping keniota. Visita cinque camp alla settimana insegnando ai giovani le regole del sano allenamento: «Ho una figlia di un anno che non ha mai conosciuto suo padre. Il mio compagno mi ha abbandonato durante la gravidanza, ma ho voluto fortemente la bambina che è la gioia della mia vita». Chi ha scelto un lavoro dietro la scrivania è Damaris, addetta alle relazioni esterne della banca partner del “Discovery”: «Se sei brava puoi fare carriera anche se sei donna. Vorrei tanto frequentare un master per migliorare il mio curriculum ». Stesso pensiero anche per Leah, insegnante di geografia all’interno del camp: «Col master potrei aprire una mia scuola e diventare manager», racconta la 29enne madre di due bambini, dal passato tormentato.
«A 18 anni mio padre impose di sposarmi, ma rifiutai. Da quel giorno lui non mi ha più considerata. Grazie a mia mamma sono riuscita a laurearmi e a crearmi una famiglia. Se avessi accettato oggi sarei una donna senza lavoro». Chi ha seguito le proposte altrui, per poi pentirsi, è stata Jemima Sumgong, campionessa olimpica della maratona: «Nel 2005 fidandomi degli amici sono andata in America. Mi avevano promesso ricchezza e fama, ma dopo un anno avevo le mani vuote. Sono tornata in patria e oggi ho al collo la medaglia a cinque cerchi». Dopo il titolo di Rio la Sumgong è diventata un personaggio da copertina, ma non ha cambiato vita. Si allena sulle Nandi Hills dove il verde è la tonalità dominante. Il colore chiaro delle sterminate piantagioni di tè, quello più scuro dei fitti boschi di eucalipto, la tinta sgargiante dei grembiuli degli operai: uomini e donne chinati, per raccogliere le foglie di tè e riporle in giganteschi astucci da spalla.
I corridori sfilano tra le piante e sono visibili solo dal tronco in su. Maschi e femmine insieme per scandire il ritmo alla Sumgong: «Ho realizzato di essere la più forte, ma voglio migliorare». Ha incontrato il Presidente della Repubblica e tanti Vip, eppure la trentenne di Kapchumba, terza di quattro figli in una famiglia di agricoltori, è ancora umile: «Ho capito da piccola che la corsa faceva per me, ma per emergere ho dovuto faticare. Il punto di svolta è stato cambiare l’allenatore». Adesso a guidare Jemima è il marito Noah Talam: «Con lui mi sento a mio agio, mi conosce e sa quando forzare o riposare». Mamma di Shallyjill, 6 anni, Jemima trascorre la giornata nel camp di Kapsabet, ma la notte dorme a casa con marito e figlia. «Il mio obiettivo è difendere il titolo a Tokyo, quindi ridiventare mamma e poi tornare a gareggiare. Penso di correre fino a 40 anni».
A due passi dalla casa di Jemima si fa festa per l’inaugurazione della struttura finanziata da Stanley Biwott, vincitore nel 2015 alla maratona di New York: «Ho realizzato il camp per far emergere i giovani, offrendo loro le condizioni per esprimersi al meglio». Al taglio del nastro è presente anche il trionfatore dei Giochi Eliud Kipchoge. «Con Stanley siamo rivali in gara e grandi amici fuori», osserva il vincitore di Rio, attualmente impegnato nel progetto di correre la maratona sotto le due ore: «Non posso svelarvi nulla, ma credo nel record». Tra qualche anno a infrangere quel muro potrebbe essere un bambino oggi sconosciuto, ma contento pure senza scarpe e pallone. È la corsa l’elisir della felicità.