Calcio. Ottavina reale per la Juventus campione, ma festa con poca «Allegria»
Semplice e un po’ banale... Qui da noi, dal 2011 lo scudetto al petto se lo cuce sempre la Vecchia Signora. La settimana delle euroillusioni perdute finisce con il matchball-tricolore con la Fiorentina (vittoria in rimonta dei bianconeri, 2-1, gol di Alex Sandro e autorete di Pezzella) “Ottavina reale”: il livornese Max Allegri, classe 1967, ricorda il Francesco Nuti di Io Chiara e lo Scuro il Toscano che a biliardo batteva il campione - lo Scuro appunto - con quel gioco assurdo di otto sponde a far filotto sui birilli. «ScudOtto». Ma la Juve toda Joja e toda Allegria continua a vedersi solo negli stadi al di qua delle Alpi. Al conte Max manca di bocciare il “birillo rosso”, quello della Champions.
Una chimera? «Gli alibi li cercano solo quelli che non vincono», ha detto il tecnico pentascudettato (6 con personali con quello vinto al Milan) alla vigilia della festa con poca allegria. Nella sua memoria da Piero Ciampi della panchina rimbalzano spesso le due finali perse contro Barcellona e Real Madrid (quando ancora le merengues avevano il suo Cristiano Ronaldo). Quest’anno doccia gelida ai quarti, e dopo aver pregato la sacra urna della Uefa che spuntasse fuori la pallina con su scritto il nome dell’unica mina vagante (abbordabile) del mazzo, l’Ajax. E l’Ajax è arrivata, ma assieme alla peggiore delle beffe.
I ragazzi della piccola arancia meccanica in formato Lancieri hanno tirato fuori il meglio della tradizione della scuola Cruijff e in 180 minuti Allegri ha visto crollare tutte le azioni europee della Juve (comprese quelle in Borsa con un -24%, ovvero quasi 300 milioni polverizzati). «Ce la siamo fatta sotto», ha mimato il Ronaldo in campo ai suoi compagni di sventura subito dopo la disfatta contro gli olandesi volanti. Ma anche lui, l’uomo da 30 milioni di denari all’anno di colpo, nonostante il pettorale sempre in tiro e il bulbo appena mesciato, è parso un po’ più vecchio (dei suoi 34 anni) e stanco.
Insomma con una Coppa Italia sfumata nel doppio confronto perso contro “l’Ajax all’italiana” (l’Atalanta) e una Champions archiviata alla voce “ennesima piccola caporetto”, a questa Juve non resta che piangere o consolarsi un po’ con il 35° scudetto. Una minestra riscaldata certo, anche per i tifosi che ormai - tranne patron Andrea Agnelli che ne reclama «37 sul campo» - non hanno neanche più nostalgia di quelli estirpati da Calciopoli, perché il Museo dell’Allianz Stadium deborda di titoli nazionali e invece è assai carente sul fronte delle Coppe dalle grandi orecchie (solo 2, l’ultima risale al ’96).
Allegri fa orecchie da mercante e rilancia: «Io resto qui». Lo fa per amore della Juve certo, ma anche per non allontanarsi troppo dalla sua Ambra, che sul mercato cinematografico anglosassone non ha ancora offerte. Per il conte Max invece si era parlato delle sirene delle due londinesi, Tottenham e Arsenal ma la prima, la squadra di Pochettino ha appena fatto fuori l’altra grande delusa di Champions, il Manchester City di Pep Guardiola, e quanto ai Gunners invece si sono divertiti con il Napoli di Carletto Ancelotti, pertanto il posto del franco Emery appare intoccabile.
Nessuno tocchi Cristiano. Il mago di Madeira la sua parte l’ha fatta ampiamente e la farà ancora («Resto al mille per cento»). Carisma da vendere, 19 gol realizzati in campionato, 6 in Champions (miglior goleador della competizione, 127 reti contro le 110 di Messi) ma l’uscita di scena dall’Europa che conta gli costerà il prossimo Pallone d’Oro. Ronaldo resta l’asso di Coppe ma non è più l’amuleto sicuro. E guardando negli occhi le tigri di Amsterdam, deve aver capito che a una certa età la differenza la fa la squadra.
Perciò pare abbia presentato una lista della spesa che prevede almeno un top-player come Salah. Il faraone di Liverpool è quotato sui 200 milioni e un altro ingaggio in stile Ronaldo a bilancio neppure la Juve può permetterselo. «Dai al giocatore ciò che gli serve e non ciò che vuole», scrive Max Allegri nel suo libro È molto semplice (Sperling & Kupfer). Poteva diventare il bestseller del 2019 se solo la sua Juve fosse arrivata almeno alla finale Champions di Madrid. Nel suo breviario laico, Allegri celebra l’elogio della semplicità che «è la cosa più difficile. Più scendi di categoria, meno i giocatori passano la palla, perché vogliono dimostrare quanto sono bravi».
In un torneo vinto con sei turni d’anticipo, ma che si poteva tranquillamente sospendere già alla decima giornata per manifesta superiorità bianconera, c’è da dire che ogni tanto mister Allegri ha fatto un po’ come quei giocatori che allenava ai tempi dell’Aglianese: ha voluto un po’ strafare. Si è inventato formazioni con Alex Sandro centrale difensivo, ha continuato a far spolmonare Marione Mandzukic in ogni luogo e in ogni lago. Non è riuscito a ridestare dal torpore del “Messi mancato” quel patrimonio tecnico-artistico che è Paulo Dybala, per il quale l’Avvocato sicuramente avrebbe coniato il giusto epiteto oscillante tra il Coniglio bagnato (vedi Roberto Baggio) e il Godot (di delpieriana memoria) che i tifosi della Juve aspettano, per ora invano.
Però è anche vero che fedele al suo motto «se vuoi sviluppare il talento, lascia esprimere i giovani in libertà» ha avuto il coraggio di lanciare e di centellinare al meglio il “millennial” azzurro Moise Kean. È lui, il black-italian di Vercelli la pietra su cui edificare la Juventus del futuro. Una squadra che ha l’attacco più prolifico e che ha subìto pochissimi gol, appena 23 (e questo Szczesny in porta vale il miglior Buffon) e questo è indice di strapotere, ma nazionale. Il ministero della difesa bianconera è andato in crisi quando si è confrontato con l’Europa.
Barzagli saluterà, ma anche Chiellini e Bonucci sono in fase calante e il timido Rugani con la testa pare si sia fermato a Empoli. Insomma, se l’eterno 2° Napoli, le milanesi e romane non aggiustano gli assetti dirigenziali e di conseguenza quelli in campo, il noioso monologo juventino proseguirà con la nona sinfonia e magari fino ad eguagliare il “13” dei norvegesi del Rosenborg. Ma per rilanciarsi e per rilanciare tutto il calcio italiano ora serve una Juve capace di salire sul tetto d’Europa e bissare quello storico triplete di Mourinho, di cui nel 2020 ricorrerà il decennale.
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