Agorà

Pallavolo. Juantorena, il sorriso della pantera

Antonio Giuliano lunedì 27 febbraio 2017

(Spalvieri/Lubevolley.it)

Lo chiamano "la pantera". Ma fuori dal campo si intenerisce ogni giorno: «Quando torno a casa e magari sono arrabbiato o giù di morale, mi basta guardare mia figlia di tre anni e mezzo che mi corre incontro sorridendo: "Papà giochiamo?". E io dimentico tutto». È l'altro volto del "cannibale" della pallavolo, il trentunenne Osmany Juantorena. Un "martello" di duecento centimetri che gli appassionati italiani hanno cominciato a conoscere nel 2009 quando con la maglia di Trento iniziò anche da noi a fare scorpacciate di trofei: due scudetti, tre Coppe Italia, una Supercoppa italiana, quattro Coppe del Mondo per club e due Champions League. Una parentesi di successo anche in Turchia e poi dal 2015 di nuovo in Italia con la Lube Civitanova dove ha da poco messo in bacheca una Coppa Italia, con una squadra che sta asfaltando il campionato e detta legge anche in Europa. Ottenuta la cittadinanza italiana, due anni fa ha esordito e cominciato a far bottino anche in Nazionale: argento alla Coppa del Mondo e bronzo agli Europei nel 2015, e lo splendido argento olimpico l'anno scorso a Rio.

Sono lontani i tempi in cui Cuba, suo paese d'origine e tra gli ultimi fortini comunisti, lo riteneva un dissidente. Nipote di una leggenda cubana, El Caballo Alberto Juantorena, campione di atletica e già ministro dello sport, Osmany che aveva cominciato a schiacciare sull'Isla lasciò la sua terra per andare a giocare in Russia nel 2004. Due anni di successi ma anche l'inizio di una serie di misteri: una squalifica di due anni per doping e uno stop prolungato per il rifiuto di Cuba di concedere l'autorizzazione per giocare in Trentino. Lui che pure era entrato in pianta stabile nella Nazionale cubana vincendo un bronzo alla World League (nel 2005). Incubi ormai passati per un talento mondiale, affamato di successi, che un giorno all'improvviso si innamorò di questo sport.

Quando ha scoperto la pallavolo?
«Ero molto piccolo, a dodici anni ero già in campo con Santiago nel massimo campionato cubano. La mia famiglia voleva che facessi atletica per via di mio zio. Ma a me piaceva solo guardarla non praticarla. Un altro zio mi spingeva per il basket, ma sentivo di non averne il fisico. Nella stessa palestra vidi dei ragazzini che giocavano a pallavolo, mi avvicinai e fu l'inizio di una storia incredibile. Non mi aspettavo di arrivare così in alto. Devo molto agli allenatori cubani».

Che rapporto ha oggi con il suo paese d'origine?
«Nessun problema, torno quando voglio a trovare la mia famiglia e sento spesso mio zio. Sono contento perché oggi la gente sta un po' meglio. Quando ero bambino la vita lì era difficile, non avevamo niente, la mia famiglia ha fatto sacrifici anche se la nostra situazione non era così disperata, quindi mi ritengo già fortunato. Son partito da zero e sono orgoglioso di quel che ho fatto ma anche molto riconoscente con i miei, non potrò mai dimenticare quanto hanno fatto per me».

In Italia oggi è una star e la sua Lube quest'anno sembra davvero imbattibile.
«No, nessuna squadra lo è. Rimaniamo con i piedi per terra. Stiamo giocando bene in campionato, ma adesso arrivano i playoff, si azzera tutto e sarà un'altra storia. Importante è aver portato a casa già la Coppa Italia, un trofeo a cui tenevamo molto. Ma ora dobbiamo arrivare in fondo in tutte le competizioni anche in Champions League. E non sarà facile perché contro di noi nessuno ha niente da perdere».

C'è qualche squadra che teme in particolare?
«Nessuna. Sono tante quelle forti, ma a me fa paura solo la Lube. Più che preoccuparci degli altri, dobbiamo pensare a scendere in campo con la mentalità giusta. È vero che forse questa è una delle mie migliori stagioni, soprattutto dopo i problemi fisici dell'anno scorso. Ma non mi sento il numero uno della SuperLega. Il mio obiettivo è sempre quello di lavorare al massimo per la squadra».

Insieme con lo zar italiano, Ivan Zaytsev, ha trascinato gli azzurri alla medaglia d'argento ai Giochi di Rio 2016.
«È stata una cavalcata incredibile. Nessuno scommetteva su di noi e tanti pensavano che non avremmo nemmeno superato il girone. E invece ha fatto la differenza un gruppo unito: anche con Ivan dopo le incomprensioni del passato è nata una forte intesa. Certo, siamo arrivati addirittura a un passo dall'oro e per tante notti ho ripensato alla finale¿Ma l'argento è comunque un grande traguardo».

Il successo olimpico ha fatto riscoprire agli italiani la passione per la pallavolo.
«È vero la pallavolo ha finalmente acquistato maggiore visibilità, anche sui mass media. E si percepisce un entusiasmo maggiore nei palazzetti, spesso c'è il tutto esaurito in SuperLega soprattutto se in campo ci sono nazionali. Per me è un orgoglio giocare con la maglia azzurra, a Rio ho provato un'emozione immensa. E l'unico rimpianto della mia carriera è quello di non averlo fatto prima. Non ho più nulla a che vedere con la federazione cubana. Mi sento sportivamente italiano».

Perché la chiamano la "pantera"?
«Quando giocavo con Cuba fu un commentatore televisivo a mettermi questo soprannome. Mi rispecchia come carattere, sono grintoso, voglio vincere sempre e penso ogni volta che potrei fare meglio. Ma c'è stato un momento che ho pensato seriamente di smettere, nel 2005 quando mi piombò addosso l'accusa di doping. Non l'ho mai accettata, perché sono sempre stato pulito. Mi costrinsero a firmare un foglio per far partire la squalifica...Assurdo. Per fortuna ho superato questo trauma. La medaglia olimpica è stata un sogno che ripaga quegli anni durissimi. Ma il successo più grande della mia vita è un altro...».

Quale?
«La nascita di mia figlia Victoria nel 2013, il giorno più felice della mia vita. Dovrà fare le sue scelte, ma vorrei guidarla per il giusto cammino così come hanno fatto i miei genitori con me. Lei è tutto per me, e il suo sorriso vale più di qualsiasi cosa al mondo».