Agorà

Arte e sacro. L'immagine postfotografica tra icona e idolo

Alessandro Beltrami giovedì 19 dicembre 2024

Il volto di Gesù nella rielaborazione della Sindone effettuata via IA dal tabloid inglese Daily Express

Nella riflessione sul rapporto tra arte, immagine e sacro c’è una assenza così vistosa da passare inosservata, ed è la fotografia. Questo forse perché la questione è di norma affrontata dal punto di vista dell’opera d’arte all’interno delle chiese, dove la fotografia per molte ragioni non è entrata se non in maniera sporadica, e non per la funzione dell’immagine. E infatti, se non come prodotto artistico, la fotografia è ampiamente presente nella sfera religiosa, sia come valore di testimonianza e di reliquia visiva, sia con un valore di tipo iconico, anche nei luoghi di culto. L’immagine fotografica ha precocemente sostituito l’arte nel fissare l’immagine canonica dei santi della modernità e la loro iconografia. Appoggiati sugli altari laterali delle chiese, in sostituzione di devozioni del passato, trovano posto con una certa naturalezza le fotografie di Madre Teresa o di Carlo Acutis, magari con qualche ritocco ed elaborazione grafica. Né si deve sottovalutare il fatto che da tempo per gli stendardi ostesi sulla facciata di San Pietro in occasione delle canonizzazioni vengono utilizzate fonti fotografiche.

Se da parte religiosa la presa di coscienza sembra ancora poco diffusa, sul fronte della teoria visuale si registra l’intuizione del legame specifico tra immagini fotografiche e categorie o problematiche di stampo teologico. Spunti arrivano ora dall’ultimo libro di Joan Fontcuberta, Oltre lo specchio. La fotografia dall’alchimia all’algoritmo (Einaudi, pagine pagine 276, euro 23,00). Il fotografo e teorico catalano getta uno sguardo alternativo sulla storia del medium a partire da quelle immagini che non definiremmo immediatamente come fotografiche, come quelle prodotte per contatto o senza l’ausilio di una fotocamera, per arrivare al postfotografico, ossia la smaterializzazione dell’immagine digitale e le nuove modalità di produzione, comprese quelle offerte dalla IA. Come scrive Fontcuberta, «la fotografia non si fa più con la luce, si fa con i dati; non è più frutto dell’alchimia ma della programmazione», una condizione che «ha rotto gli ormeggi e istituisce nuovi vincoli con la memoria, la verità e la materia». Allo stesso tempo, l’immagine prodotta con l’algoritmo recupera in sé il mistero della sua realizzazione che era propria di quell’alchimia che sperimentava processi prefotografici. Questo processo porta a un riesame, proprio del pensiero di Fontcuberta, del principio della verità dell’immagine fotografica, investendo i temi del potere e del simbolico.

Fontcuberta dedica ad esempio un capitolo all’iconofagia, una pratica cultuale e rituale antica (anche in ambito cristiano, con l’ingestione di piccole immagini di santi) che riemerge in pratiche artistiche e in produzioni narrative e mediali contemporanee. Fontcuberta accosta il fenomeno, con giusti distinguo (per quanto con imprecisioni teologiche), anche alla pratica eucaristica: nel caso della fotografia a entrare in comunione è il tempo perduto, che viene così reincorporato e rivissuto.

Ma è soprattutto il capitolo dedicato a “Rappresentare Dio in un ritratto” a entrare più direttamente nella questione. Fontcuberta affronta qui il problema del desiderio di vedere il volto di Dio, quello che Dante ben sintetizzava nell’emozione del pellegrino romeo davanti alla Veronica. In particolare Fontcuberta indaga i tentativi di restituire sembianze di Gesù più vicine alla verità storica, per sanare la distanza con le ricostruzioni idealizzanti ed eurocentriche offerte dalla tradizione iconografica. C’è ad esempio quello condotto dalla scienza forense congiuntamente a esperti neotestamentari su crani di uomini ebrei vissuti in Palestina nel I secolo. Ma ci sono soprattutto i molti progetti artistici basati sulla generazione di immagini attraverso la IA. «Curiosamente – scrive Fontcuberta – nonostante il falso statuto fotografico di queste immagini, il loro realismo conferisce loro una misteriosa aura di autenticità, come se avessimo un fotografo nel passato».

I tentativi, bisogna dire di una ingenuità colpevole, di dare voce e corpo per via della IA a Gesù così che possa rispondere direttamente alle domande dei fedeli, come quello recentissimo in una chiesa cattolica di Lucerna, rientrano in questa categoria. Ma è difficile non osservare come quella generata attraverso la IA sia a tutti gli effetti una immagine autenticamente acheropita. Certo, già Barthes in Camera chiara osserva- va en passant della acheropitia della fotografia, anche se la mediazione della macchina e dell’occhio è molto più ingombrante di quanto si creda. In ogni caso conta l’ambizione a creare immagini acheropite. Nel campo del sacro ciò che conta non è la realtà dell’immagine ma la credenza, anche dal punto di vista della genesi. E quella dell’immagine prodotta dalla IA è completamente insondabile. In quanto credibile nel risultato, ha in sé il potenziale controverso del miracolo. Nel “non essere prodotti da mano umana” convergono vertiginosamente i volti di Cristo della IA e la Sindone, l’immagine per contatto per eccellenza: la minima e la massima distanza possibile dal corpo. Forse l’alfa e l’omega della fotografia.

Osserva Fontcuberta che «la contiguità tra il referente e la sua rappresentazione impregna l’indice (in semiologia la prossimità naturale alla cosa denotata, ndr) con un alone di magia e presenza ». Ma, paradossalmente, proprio l’assenza totale di indice impregna di magia l’immagine generata dalla IA. La prova sta nelle immagini IA generate lavorando sulla Sindone, come quelle realizzate recentemente con MidJourney da un tabloid come il “Daily Express”, dove pre e postfotografico collassano. Fontcuberta definisce la forza sostitutiva dell’immagine come propria della “ontologia del fotografico”: le fotografie come vicari magici della realtà (la persona lontana) o capaci di prolungare la presenza oltre la morte – in questo senso recuperando direttamente il valore dell’immagine preartistica nella lettura di Belting. Proprio in questo senso la fotografia tout court ha un rapporto con la sfera del sacro oggi più profondo rispetto alle altre arti visive: perché si colloca in una posizione arcaica, nonostante o forse proprio in virtù della sua natura (iper)tecnologica e (apparentemente) non mediata. È la componente magica della tecnologia: ma la magia è sempre stata una questione tecnologica, un controllo e una forzatura per via strumentale delle leggi di natura. La fotografia si colloca così in una via ambiguamente intermedia tra l’icona, ossia presenza che si offre su uno schermo di una realtà altrimenti remota, e l’idolo, prodotto umano oggetto di manipolazione e a sua volta manipolatorio.

Nel postfotografico e nella società con cui questo si rapporta, nell’impossibilità di riconoscere la priorità di chi modella o viene modellato, entrambi gli elementi sono esaltati. Da una parte l’illusione dell’icona nell’immagine acheropita, dall’altra la venerazione di una forma oracolare di natura tecnologica. È il principio del Mago di Oz. Marie José Mondzain ha sottolineato «il ritorno prepotente del tema dell’idolo e dell’infatuazione che lo stesso suscita» nel tempo presente. Scrive la filosofa francese: « È d’altra parte nella sua natura intrinseca il sedurre e il risvegliare gli appetiti in nome delle promesse d’amore e di godimento che non possono non far parte della denotazione del termine in sé. Godimento e potere sono le nuove parole d’ordine in un mondo in cui l’onnipotenza accordata ai desideri privati si appoggia sull’erotizzazione del consumo di qualunque oggetto. In altri termini l’idolo rientra in servizio sotto il segno della consolazione e della consumazione ». Non sembra difficile estendere questo discorso alla modalità di produzione e fruizione della massa di immagini che ipnotizza dal surrogato iconostatico dello specchio nero di uno smartphone.