Agorà

Intervista. Jethro tull, contro la barbarie

Andrea Pedrinelli mercoledì 25 novembre 2015
E' un fiume in piena, Ian Anderson. E come suo solito non parla solo di musica: anzi. Il leader dei Jethro Tull, leggendaria band progressive che ha fatto la storia del rock mondiale, parte sì da The Rock Opera con cui sta per portare anche in Italia (il 29 a Bologna, il 30 a Torino e il 1° dicembre a Bergamo) la vicenda dell’agronomo che alla band stessa ha dato il nome, quel Jethro Tull vissuto tra XVII e XVIII secolo rivoluzionando l’agricoltura (inventò la seminatrice meccanica e una macchina contro le piante che infestano i raccolti). Ma non si ferma qui: come non si limita a raccontare quanto la storia di Tull, in uno spettacolo ricco di effetti speciali, sia stata da lui portata nell’oggi e nei suoi problemi seguendo il filo rosso dei capolavori del gruppo, Aqualung e Locomotive breath, i brani di Thick as a brick o Heavy horses e così via. No: l’artista scozzese classe 1947, che innestò il flauto traverso nel rock e fondò i Jethro Tull a vent’anni portandoli poi su più strade stilistiche (alcune molto discusse, in verità, dai critici e dagli stessi fan), parla di come in parte li ha pure rivisitati, i suoi classici, con forte piglio etico: per affrontare ancora una volta, nel rock come dialogando con noi, il senso dell’essere uomini oggi. Perché nel suo tour mondiale, accompagnato da David Goodier, John O’Hara, Florian Opahle e Scott Hammond, Anderson fa rivivere i due Jethro Tull, il personaggio storico e la band leggendaria, non per celebrarsi: bensì per riflettere su chi siamo e, magari, sul domani che vogliamo. Anderson, è impossibile non partire dai fatti di Parigi. Cosa può fare un artista per combattere la barbarie? Che responsabilità sente di avere, lei? «Sicuramente bisogna fare musica di senso: non per combattere qualcosa o qualcuno, ma per capire. E poi, vede, sul palco del Bataclan potevo esserci io. Poteva esserci Paul McCartney, potevano esserci i Deep Purple. Quindi c’è paura, sì, ne ho provata. Ma lasceremmo vincere i terroristi stando a casa: il primo dovere che noi artisti abbiamo è dunque andare avanti a suonare, a lavorare. Sull’esempio di quei londinesi che andarono in ufficio i giorni seguenti agli attacchi ai mezzi pubblici. Malgrado il timore e lo sgomento, bisogna andare avanti. Cercando senso». E quale può essere il senso da mettere nella musica? «Nel nostro piccolo dobbiamo lanciare messaggi che possano prevenire certe derive. Dobbiamo cantare che i bambini non devono lavorare né sostituire i giochi con i kalashnikov. Dobbiamo sottolineare che la donna non è un oggetto e che uccidere in no-È me di un dio è qualcosa di terribilmente distorto, è pervertire la religione. Abbiamo la responsabilità, di dire certe cose, visto che tanti ci ascoltano». In The Rock Opera che temi etici affronta, dunque? «Si parla di sfide critiche per il nostro essere uomini. Jethro Tull era un rivoluzionario della ricerca scientifica, oggi cosa fa la ricerca? Provo a riflettere partendo da lui su tematiche come la mutazione genetica, l’ipotesi della clonazione, insomma potenzialità e rischi della scienza odierna. Poi il lavoro rimanda pure alla necessità di dividere meglio il cibo nel pianeta, denuncia lo svilimento della donna o la concezione del bambino come oggetto. Ma attenzione, non sono conferenze né prediche. Sono spunti per riflettere, per capire insieme dentro un momento di aggregazione costruito sulla musica: che non ho mai concepito come puro divertimento, da sempre voglio che oltre la superficie dica altro». Come porta il repertorio della band a fornire spunti su questi argomenti? «Ci sono anzitutto cinque brevi canzoni nuove sui temi dell’alimentazione, della produzione di cibo, dell’agricoltura stile Frankenstein, insomma su dilemmi etici del- la scienza odierna. Sono brani anche fatti d’ironia e resto ottimista, sul domani. Però negli inediti concentro le riflessioni sui pericoli di una radicalizzazione dell’uso della tecnologia, sui diritti delle donne in certi Paesi, su comportamenti personali che non aiutano il mondo o su chi non pensa ai figli come esseri umani ma li tratta come prove di virilità da collezionare. Poi ci sono piccole varianti ai testi già noti per raccontare bene la figura di Jethro Tull e mettere tutto dentro un percorso narrativo omogeneo che parli di passato, presente e futuro. Sempre senza imporre le mie idee sui vari temi, ma per far pensare al riguardo». E chi non capisce l’inglese riesce a seguire bene? «Ci sono traduzioni della sinossi, anche in italiano, sulla scena. Assieme a filmati di ospiti virtuali che interagiscono con la band, laddove si può proporli. Ma questi effetti speciali sono meno importanti delle cose da dire e della riflessione su problematiche che riguardano il mondo da diversi anni, ormai». Chiudendo in musica: esistono per lei ora innovatori come l’Anderson che portò il flauto nel rock?«Il periodo che ho vissuto è stato fortunato e rivoluzionario: oggi non vedo né Bill Haley né Charlie Parker, in giro… Con gli anni Novanta la musica è diventata ben suonata, ben prodotta, ma non è nuova. Intendiamoci, ci sono bravi artisti e gruppi in giro: ma non riesco neppure a immaginarmela un’altra generazione che allinei Pink Floyd, Led Zeppelin, Cream e uno come me che prenda da Bach il flauto e lo usi per ricreare musica in un altro modo rispetto a quello che già fu rivoluzionario con lui o Stravinskij, arrivando a portare novità al mondo. Gli spunti per nuove avanguardie oggi, personalmente, li trovo ascoltando il folk o la musica classica».