«Essere qui a Roma con
Jesus Christ Superstar è il sogno di una vita». Ted Neeley, lo storico Gesù protagonista del musical di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, divenuto una vera e propria icona grazie al film di Norman Jewson del 1973, debutta in scena al Sistina di Roma il 18 aprile, la sera del Venerdì Santo, nella rock opera che ripercorre la Passione di Cristo con la regia di Massimo Romeo Piparo. Certo, a 71 anni Ted Neeley non ha più l’aria da biondo figlio dei fiori, ma la sua voce, allenata in oltre 1700 alzate di sipario nello stesso ruolo, è ancora in grado di commuovere sulle note di brani indimenticabili come
Getsemani. Tra l’altro è appena uscito il suo disco
Rock Opera (TedHead Records) in cui ripercorre i grandi successi della sua carriera: non dimentichiamo che Neeley è stato anche protagonista dei debutti a Broadway di opere fondamentali nella storia del rock come
Hair, Tommy degli Who e
Sgt. Peppers dei Beatles. Ma è ovviamente
Jesus Christ Superstar quello di cui parla con più passione ad
Avvenire.Mister Neeley, che significato ha interpretare il ruolo di Gesù, proprio a Roma durante la Settimana Santa?«Per me è un grande onore e una grande responsabilità, ma è un ruolo che è in linea con la mia spiritualità. Anche recitare in questa bellissima produzione italiana aiuta la mia ricerca interiore. È l’occasione anche di visitare Roma, il centro della cristianità, il centro della storia. E di vedere da vicino le cose di cui parlo da 40 anni. Appena ho un attimo libero dalle prove, vado in giro per la città con mia figlia Tessa. Ho visitato il Colosseo, e al più presto voglio andare a visitare San Pietro.
Jesus Christ Superstar è stata sia la svolta della mia carriera, sia quella della vita».
Quale è il suo rapporto con la fede? «Io sono cresciuto in un paesino di 2000 anime nel Texas, dove la religione è parte essenziale della vita di una comunità. Da bambino andavo regolarmente in chiesa il mercoledì e la domenica, nessuno mi ha forzato, è stata una mia scelta. Le storie della Bibbia sono sempre state il mio pane quotidiano. Tantoché sul set di
Jesus Christ il regista Norman Jewson diceva sempre: 'Se avete bisogno di una consulenza biblica' andate da Ted. Beh, credo che se non avessi avuto la fortuna di avere questa formazione dall’infanzia, forse non sarei riuscito a fare bene il mio lavoro in quest’opera».
Come si è preparato per interpretare il film di Norman Jewison? «Durante le riprese del film, in Israele ho fatto molte ricerche, ho letto decine di libri da allora ed ogni volta ho scoperto qualcosa di nuovo. Volevo poter essere credibile nei gesti, su come muovermi, ma anche su che senso dare ai fatti tramite la mia interpretazione. Per me quel film è stata una nuova educazione. Norman, che era una persona altamente spirituale, era molto attento soprattutto al pensiero del mondo cattolico».
E quale lezione ha appreso interpretando Cristo? «A parte il mio rapporto intimo e personale con i suoi insegnamenti, negli anni ho sempre più ho capito che tutti gli uomini sono collegati da una stessa dimensione spirituale, al di là delle differenze religiose. Io mi sento parte di un grande abbraccio, in particolare vorrei che il mondo cristiano fosse unito al di là delle divisioni fra cattolici, protestanti e altre confessioni».
Anche girare un film sui luoghi di Gesù nell’Israele degli anni 70 ha dato più valore al film? «Il film fu girato nel 1972 in Israele in un momento politicamente molto difficile. Ma abbiamo avuto la completa collaborazione di Golda Meyr che voleva sviluppare l’industria cinematografica nel Paese. Per esempio nella scena in cui Giuda è preso dal rimorso per il tradimento, viene inseguito da carri armati israeliani veri, che in quei giorni pattugliavano la zona. Per questo girare lì un film con un forte messaggio di pace era particolarmente importante. Il nostro era un set 'di pace': oltre ad artisti di mezzo mondo, c’era c’era moltissima gente del luogo, ebrei e arabi compresi. E lì ho conosciuto pure mia moglie Lorie Ann, una bravissima ballerina. Da allora non ci siamo più lasciati».
Le piacerebbe incontrare papa Francesco? «Certo, magari anche solo per stringergli la mano. Ho visto e letto molto su papa Francesco, e lo sento davvero vicino. È un uomo della gente, che si mette in relazione con il popolo e così facendo fa sentire ancora più vicino Dio».
«Jesus Christ Superstar», però agli inizi, provocò molte proteste. «Al debutto a Broadway nel 1971, ogni sera per entrare a teatro dovevamo superare un cordone di persone che protestavano. 'Ma come – dicevano – Gesù si mette a cantare il rock? State distruggendo la società'. Allora io rispondevo: 'Entrate e venire a vedere prima di giudicare, alla fine dello spettacolo ne parliamo'. E la gente entrava e cambiava idea»
Tantoché «Jesus Christ» oggi è diventato un classico anche in molte parrocchie. «Semplicemente si parla degli ultimi 7 giorni di vita di Gesù dal punto di vista dei suoi amici. Un Gesù uomo, con le sue fragilità, ma è proprio questo che lo possiamo sentire più nostro e, di conseguenza, aprire la porta a Dio. Io sto facendo così da quarant’anni: una volta finita la rappresentazione, mi fermo a parlare con la gente. È la cosa che mi arricchisce di più. Vengono anche tanti non credenti, che si scoprono toccati nel profondo. E io mi sento un uomo fortunato».