Arte e tecnologia. Jeffrey Shaw: «L'arte digitale? Vive con il corpo»
Jeffrey Shaw, Domani l'artista sarà ospite di Meet, il centro di cultura digitale di Milano
Nel 1980 in un testo su arte e tecnologia osservava come l’applicazione nelle nostre vite dei processori digitali avrebbe avuto «un impatto sociale maggiore dell’invenzione dell’automobile o del telefono». Nel 1992 si interrogava sulla realtà virtuale come nuovo medium artistico. Jeffrey Shaw, nato a Melbourne nel 1944, è stato uno dei primi artisti a impegnarsi con forme di new media art partecipative, interattive e controllate dal computer ed è considerato un maestro di quel territorio delle arti visuali che si confronta con le tecnologie digitali. Shaw domani alle ore 18.00 sarà ospite telematico del ciclo di incontri di Meet, il centro di cultura digitale nato con il supporto di Fondazione Cariplo a Milano. Una sorta di ritorno per lui, che nel 1965 era arrivato a Brera per studiare scultura e a Milano aveva realizzato un serie di installazioni interattive con sculture gonfiabili.
Le sculture gonfiabili erano interattive. La sua media art è interattiva, ma il mezzo è completamente diverso. Se, con McLuhan, il medium è il messaggio, come i nuovi mediahanno inciso nella nozione di opera d’arte?
«Alla base ci sono le stesse motivazioni: a me interessa cercare strategie di coinvolgimento con lo spettatore che ne potenzino la creatività, così da farne a tutti gli effetti un co-creatore. Negli anni 6070 ero affascinato dalle strutture gonfiabili, aeree perché erano un modo diretto per coinvolgere fisicamente lo spettatore alla partecipazione. Poi ho cercato modi più complessi attraverso cui articolare questa conversazione tra spettatore e opera d’arte e ho iniziato a lavorare con i computer costruendo mondi virtuali interattivi come scenari complessi di coinvolgimento. Da una parte ci sono differenze radicali, ma il continuum dell’arte è essere costante metamorfosi. Quando faccio arte voglio creare il luogo di una esperienza profonda: un dipinto è il luogo di una esperienza profonda, e un’opera interattiva è il luogo di una esperienza profonda. Se entrambe hanno successo».
Negli anni 60 lei già usava le strutture gonfiabili per proiettarvi dei film.
«Il cinema espanso è un’altra tematica del mio lavoro. Usavo le strutture per creare uno spazio cinematico in cui lo spettatore potesse entrare. Con i mondi generati al computer questo diventa molto potente. Sono interessato al fatto che l’elemento performativo faccia sì che la performance sia unica, non ripetibile e legata all’individuo che ne è protagonista. L’opera si trova sempre in uno stato di trasformazione. È il cuore di tutto il mio lavoro: creare uno spazio di rappresentazione e strutture narrative di cui, attraverso interfacce interattive, lo spettatore è operatore ma anche “editor”»
Si tende ad abbinare istintivamente la realtà virtuale alla sfera dell’immateriale o persino dell’irreale. Quando parla di spazio ed esperienza digitale, lei invece usa spesso i termini body, “corpo”, e embodiment, “incarnazione”.
«Noi viviamo in due posti, nei confini del nostro corpo e nell’estensione illimitata dell’immaginazione. Ma io credo davvero che ci sia tra loro una alleanza perfet- ta. La storia dell’arte è anche la storia di come gli artisti evochino uno spazio immaginario “intrappolato” nella materia. Nel mondo della pittura ogni fantasia possibile è vincolata alla tela, alla sua presenza nello spazio. E tu la incontri in modo fisico: è il tuo corpo di fronte a quell’oggetto. Quando evochi un mondo virtuale è ancora il tuo corpo a esserne coinvolto. Molte delle mie opere enfatizzano la fisicità. In Legible City, del 1990, si esplora un ambiente urbano costituito di parole e ancorato alla topografia della città in cui l’opera è installata. E lo fai pedalando su una bicicletta, anche per chilometri. Quando finisci sei stanco».
Queste tecnologie sono soggette a rapida obsolescenza. Come influisce sulla longevità estetica e culturale delle opere?
«Per quanto mi riguarda longevità culturale e tecnologica sono due questioni diverse. Da sempre io non lavoro per il futuro, ma realizzo opere nel presente per il presente. A distanza di anni o decenni ho osservato, non senza sorpresa, che alcune opere mantenevano l’energia e i significati di un tempo, perché le tematiche e l’estetica erano restate rilevanti, altre invece no: è una obsolescenza estetica. Per quanto riguarda il fronte tecnologico, queste opere sono fragili. Una opzione è lasciarle andare, senza rimpianti: onestamente non mi interessa se le opere scompariranno nella storia. Ci può essere però la necessità o il desiderio di tenerle vive. Ci sono diverse strategie e attitudini. I musei, ad esempio, preferiscono mantenere l’originale di ogni componente, software e hardware. Io non ho quella posizione. Il mio sentire è che si possa fare una replica che sia identica nella sua idea operativa, non mi interessa quale tecnologia usi per raggiungerla. L’importante è ricostituire l’intenzione dell’originale».
Ma non cambia nulla?
«Sì, ci sono differenze. Ad esempio nel 2019 ho rifatto The Golden Calf, un lavoro del 1994, usando un iPad. L’opera originale invece usava un piccolo monitor, attaccato a un cavo. Dove è la differenza? Reggere un monitor tra le mani o un iPad è completamente diverso. Allora fu una sorta di choc, perché il monitor era un oggetto fisso sul tavolo: prenderlo in mano e andare in giro per la stanza significava forzare l’identità dell’oggetto. L’identità culturale dell’iPad è completamente diversa. La cosa interessante è che non posso far risorgere la vecchia opera: posso far risorgere il monitor ma non la sua esperienza, perché le persone di oggi non sono quelle di allora. E tutto questo in soli 20-30 anni».
Nel 1991 lei ha realizzato un “museo virtuale”. La pandemia è stato un acceleratore della presenza digitale dei musei e sono comparse numerose mostre e gallerie all’interno di spazi virtuali. Cosa ne pensa?
«La costruzione di musei virtuali è stata importante in questo frangente pandemico. Ci sono state due strategie: una è la documentazione virtuale di un mostra reale, l’altra è la costruzione di una mostra completamente immaginaria. Il mio Virtual museumlavorava su queste differenze e ipotizzava di esplorarle. La postazione era installata fisicamente nella stanza di un museo reale. L’idea era entrare in museo e avere a che fare con una macchina che estende infinitamente quel museo in tutte le direzioni. Le stanze del museo virtuale replicavano l’architettura della stanza in cui era installato ma non i limiti imposti dalla fisica, come una sorta di paradosso alla Magritte o alla Escher. L’opera esplora l’ibrido reale/virtuale, fisico/ immateriale…»
La realtà virtuale, la realtà aumentata, i media digitali sono ampiamente diffusi nel campo dell’entertainment, dai parchi a tema al gaming. Ci sono confini tra arte e entertainment? Quanto questo legame è un vantaggio e quanto un handicap?
«La risposta la offre il cinema. C’è una gamma di espressioni di cui il cinema può farsi carico, dal più profondo a quello più volgare. Ciò che il cinema mostra è che tutto questo può coesistere e persino incrociarsi. È il modo in cui l’opera d’arte esonda nella cultura di massa: è inevitabile e può essere anche un problema. Per me, in quanto media artist, noto che avviene a un ritmo alto. Quando ho iniziato a fare l’artista virtuale usavo il termine “interattivo”, e nessuno capiva di cosa stessi parlando. Oggi tutti pensano di capire cosa significhi “interattivo” ma è diventato un cliché. Questo indebolisce il valore dello choc, della sorpresa. Pensiamo alla storia dell’arte, ci sono secoli di quadri: ma anche il quadro è un cliché. Quando guardi un quadro pensi: “Ah, ecco un altro quadro. Io so cosa è un quadro: un quadro è un quadro”. Eppure gli artisti sono ancora capaci farsi carico con successo della potenzialità di un quadro. È indubbio che sui nuovi media ci sia un eccesso di familiarità, una abbondanza di associazioni. Abbiamo visto troppi film di fantascienza, il futuro è avvelenato: nessuno sorpresa… ma non importa. La sfida per un artista è proprio questa. L’arte deve parlare con una voce chiara in uno spazio dove c’è molto rumore».