«Voglio educare. Perciò ho fatto un cd popolare. Anche se mi piace pensare che dentro in qualche modo ci sia la voce del mondo». Bobby McFerrin, cantante, direttore d’orchestra, improvvisatore, talento riconosciuto del jazz e non solo, presenta così il nuovo album
Vocabularies. Che, in effetti, è «popolare»: come l’artista stesso ha sperimentato dopo averne proposto un brano alla tv americana Nbc («Mi fermano per strada»), come si coglie ascoltandolo. Per la sua capacità di ammaliare, commuovere, sferzare: in modo semplice ed immediato. Peccato che
Vocabularies sia «popolare» solo nel senso, appunto, che arriva al cuore. Perché trattasi di sette brani dai sei agli undici minuti, con rimandi che vanno dai lieder al rock, dalla lirica all’Africa: pure e complesse polifonie. Per la precisione, la voce di McFerrin miscelata a quella di altri cinquanta e più cantanti, dalla brasiliana Luciana Souza a Janis Siegel dei Manhattan Transfer, dalla star dell’r’n’b Lisa Fischer a cantanti d’opera, con solo (qua e là) percussioni, sax e sintetizzatore. Ohibò, si dirà: come fa un lavoro del genere ad essere «popolare», contro le imposizioni sempre più stereotipate di radio e industrie? Da fuori, la risposta è semplice: ci riesce perché il coraggio di fare musica vera è l’unica strada rimasta per arrivare a chi vuole ascoltarne. Dal di dentro, cioè dalla prospettiva del 55enne newyorchese, uno che ha lavorato con Benson e Hancock, che ha studiato con Bernstein e Ozawa, che dall’88 è etichettato come quello della hit
Don’t worry be happy, che ha rischiato il confino nella nicchia della musica «per pochi» fra direzioni sinfoniche e la sua Voicestra (orchestra di voci nata nell’86), beh, dalla prospettiva di McFerrin la risposta è più articolata. A tratti persino disarmante, nell’ovvietà di ciò che sottolinea e che spesso artisti (e produttori) si scordano. «La musica è parte della vita», dice. «La musica è qui, la musica è ora: questo mi piace sia il mio slogan. Cosa significa? Che la musica bisogna viverla, non deve essere qualcosa di freddo o precotto. Anche sul palco bisogna quindi mettersi in gioco, andare al di là della professione, pur mantenendo di essa la disciplina». Figurarsi in un album, dunque. Per questo
Vocabularies, nato da un’idea della produttrice Linda Goldstein (che ha affidato a Roger Treece, musicista classico, l’ascolto di centinaia di ore di improvvisazioni di McFerrin su cui «costruire in sei anni veri spartiti, ma tenendo la gioia del canto»), è «popolare». «Perché non voglio che la gente dica "quant’è bravo questo". Voglio spingerla a cantare. Io, come artista, ho anche lo scopo di educare. Nei miei show, invece dei bis, da sempre mi metto a disposizione per rispondere a domande. Perché la gente si confronti, porti a casa l’artista ma conosca anche l’uomo. E poi li faccio cantare». Il canto del pubblico l’ha anche usato in una traccia del disco,
Wailers, da un concerto in Norvegia; e fra poche settimane McFerrin tornerà a confrontarsi pure col pubblico italiano. Dopo una data (17 maggio) da direttore classico alla Scala per la Croce Rossa, terrà serate a cappella il 20 maggio a Roma, il 22 a Bologna, il 23 a Torino con guest star, il 25 a Vicenza. Con quella che viene definita "musica del 21° secolo" dai comunicati. E da McFerrin? «Canzoni. Le mie canzoni, in cui ognuno può trovare la sua. Perché la nostra vita è una chance, donataci da Dio».