100 anni di jazz. Paolo Jannacci: io e papà Enzo, una dinastia bop
Enzo Jannacci, Tomelleri, Reverberi, de Luca a Milano, anni 50 (courtesy Nando de Luca)
«Cos’è il jazz oggi? Esprimere la propria soggettività senza briglie. E per riuscirci bisogna cercare in noi: nel momento in cui un artista trova il suo suono, e quel suono non è rumore, arriva la purezza. Che in musica è dentro chi la crea». Ha la medesima acuta delicatezza del padre, Paolo Jannacci, ottimo pianista che avendo ereditato anche il pudore da uno dei più grandi cantautori italiani, preferisce si parli di lui come «artista che cerca di essere onesto», perché «di pianisti ce ne sono di più bravi di me, per molti non sono un jazzista». Sarà: certo, superato lo choc di essere ricevuti in quello che era lo studio dello Jannacci medico di base, e l’emozione di aver suonato a un citofono con scritto “Jannacci dr.Vincenzo” quattro anni dopo l’addio a Enzo, con Paolo Jannacci è di jazz che si parla. Perché Enzo, “il papà”, prima di diventare cantautore fu pianista jazz: elogiato dai critici e bazzicante la scena non solo italiana con Franco Cerri, Bruno De Filippi, Nando de Luca (che ci raccontò «Suonavamo Ellington e Porter») e persino Bud Powell o Kenny Clarke, nonché Paolo Tomelleri, l’insegnante di Jannacci junior. Con il quale si parla di jazz perché questo fa: anche nel maturo Hard playing, appena uscito cd che (edito col dvd dello show In concerto con Enzo) ne segna un netto salto di qualità. Da un pianismo scintillante, di tocco caldo e sicuro ma esercitato fra melodia e solismo, Paolo vira verso una ricerca d’insieme (con Stefano Bagnoli batteria, Marco Ricci contrabbasso, Daniele Moretto tromba) che lo spinge ad atmosfere da urban jazz ( Flux), un quasi hard-bop che sfiora il free (la splendida Troppo smog), sperimentazione di puntinismo pianistico e scomposizione di standard. Non si poteva che parlare di jazz, in casa di uno il cui padre nel jazz scrisse canzoni d’autore ( Quelli che… sommo esempio) e che fra le sue tastiere allinea cd giapponesi di Miles Davis.
Cosa le diceva Enzo del jazz italiano dopo la guerra?
«Mi raccontava di una Milano punto d’incontro di grandi. Andava a sentire live Monk, suonò con Powell e Clarke. Lui e i suoi colleghi però non avevano metodi o spartiti, impararono dai dischi, cercando di trascriverne le note… In un clima generale in cui il jazz era detto volgare, con sottile razzismo, da chi sosteneva che la vera musica fosse Puccini. Tanto che il papà ricordava benissimo le scarpe lanciate a Chet Baker durante un veglione di Capodanno… Il punto di riferimento era Tomelleri, comunque: un genio, a mio avviso. Fecero insieme pure medicina, papà a fatica e Paolo leggendo “Topolino”, ha una memoria pazzesca».
Che pianista jazz era Enzo Jannacci?
«Medio. L’irruenza poi è sfociata in canto e teatro».
Sicuro? In un lp del ’59 di nuovi talenti il critico Polillo parla meglio di lui che di Intra o Cerri…
«Forse perché aveva energia: che però cercava di reprimere, nel jazz. Anche se riconosco che un po’ di Dave Brubeck, come scrisse Polillo, l’aveva».
Abbiamo perso un jazzista o guadagnato un cantautore?
«La seconda. Non avrebbe mai fatto uscire tutto se stesso senza il canto. Però io non mi accompagno come lui: usava note intense, seste basse. Dava già un significato forte alla musica, solo al pianoforte».
Quali erano jazzisti e dischi prediletti da Jannacci?
«Bud Powell, Thelonius Monk di cui amava le idee radicali, e Oscar Peterson. Il suo Blues Etudedel ’66 col brano L’impossible abbiamo passato vent’anni, in casa, ad ascoltarlo. Ne andava pazzo ».
Ha sempre nel cassetto brani da cantautore?
«Eccome! Vorrei fare qualche festival della canzone…».
Nell’attesa, parliamo di lei jazzista. Che cosa cerca di realizzare con lo strumento oggi?
«Volevo una connotazione armonica più dura, “hard” come da titolo: con meno strutture e uscendo dal concetto che o ci si contamina o si guarda indietro. Credo che il futuro sia invece contaminarsi “umanamente” coi colleghi, sfruttando potenzialità e conoscenze di ognuno. Per me oggi un jazzista deve cercare suono d’insieme, sempre seguendo la lezione base del bebop: mirare a quanto non è ordinario».
Quali sono i suoi pianisti-chiave della storia jazz?
«Oscar Peterson, Bill Evans, Herbie Hancock».
E i compositori? Anche in questo cd rilegge Legrand… «
Quasi non me ne rendo conto di finire sempre lì, fin da quando lo sentii suonato da Evans capendo cosa significhi interpretare grandi temi. Ma il sommo compositore di jazz rimane Stravinskij, per me… O se preferisce Gershwin: lo stesso Miles senza di lui credo funzioni meno. Mentre le opere di Gershwin sono testo che si fa sempre arte».
È dura essere jazzista da giovani, in Italia?
«Se suoni bene non credo. C’è una giusta selezione naturale, e io stesso penso di averla subita venendo considerato poco jazz. Ma ci sta: preferisco essere un artista onesto. Però pubblicare un disco è durissima, per questo cd ho atteso anni».
Lei insegna: tre dischi “libri di testo” del jazz?
«Gershwin: le origini del genere, la codifica, e con I got rhythm del 1930 il cambiamento. Poi Louis Armstrong, la base. Infine John Coltrane, da A love supreme in poi: è musica che viene dal profondo, dice qualcosa di superiore, fa capire quanto il jazz possa far anelare tutti all’arte. Il papà lo cantò: dicendo di “quando un musicista ride” perché capisce che sta crescendo, diceva il jazz secondo Enzo».