19 gennaio 1969 - 2019. Jan Palach: libertà e martirio del fuoco
Fiori sulla tomba di Jan Palach suicidatosi dandosi fuoco per protesta contro invasione russa della Cecoslovacchia
Lo scrittore americano Arthur Miller scrisse questa memoria della sua reazione alla notizia della morte di Jan Palach vent’anni dopo il sacrificio dello studente praghese, mentre la “Rivoluzione di velluto” si stava avvicinando. Havel era di nuovo incarcerato e Miller il 29 gennaio 1989 scrive una lettera al quotidiano praghese “Lidové noviny”, dove tra l’altro dice di “non riconoscere” più la Cecoslovacchia di allora, un paese il cui governo «imprigiona ripetutamente uno dei suoi più talentuosi e onesti figli», e a questo proposito parla di «nuova rovina». Il paragrafo centrale della lettera, che qui pubblichiamo, è dedicato a Palach e al suo sacrificio.
«Mi è capitato di visitare Praga subito dopo l’autoimmolazione di Jan Palach, un atto estremamente complesso di affermazione e disperazione. Ricordo che i cechi mi chiesero se pensavo che avesse fatto qualcosa di utile, o se fosse solo un altro gesto futile, forse persino un’esplosione di egoismo destinato a precipitare nel fondo della memoria della nostra epoca. Alla luce delle soffe-renze di Palach, all’epoca era impossibile negarne la sua sublimità, ma col passare degli anni l’utilità politica della sua azione ha cessato di essere il punto, almeno per me. Quello che divenne molto più importante fu la manifesta autenti-cità della sua identità umana espressa nel suo sacrificio. Quale altra creatura sulla terra avrebbe potuto immaginare da sé la bellezza di un futuro di libertà e giustizia fino al punto dell’autoim-molazione per la sua causa? Nello sbuffo di fumo che per un breve istante si disperse sulla sua bella città, c’era un monumento molto più solido della pietra o dell’acciaio, incommensurabil-mente più duraturo, perché l’uomo è nato per la libertà. È il suo diritto alla nascita, alla vita e alla morte».
Arthur Miller
Il ricordo che Arthur Miller, vent’anni dopo la morte di Jan Palach, affida al giornale praghese “Lidové noviny” il 29 gennaio 1989 (di cui pubblichiamo un brano), mi ha ricordato una pagina di Jorge Semprún in La scrittura o la vita, dove racconta la sua esperienza a Buchenwald. Lo scrittore spagnolo narra l’arrivo degli alleati al campo nel quale era rinchiuso da circa due anni. È ridotto pelle ossa. La colonna sonora di questo terribile film è il silenzio del bosco che infonde nei soldati un’angoscia profonda. Lui, coglie nei loro occhi la paura, come se avessero davanti un fantasma e temessero di aver varcato la soglia di un mondo “infero”, terra amara e sacra, terra di nessuno che nemmeno uomini abituati all’orrore della guerra sembrano sopportare. Non si capacitano di ciò che vedono. La vittima cerca di riportarli alla realtà delle cose con una osservazione che in parte ho ritrovato nelle parole di Miller quando scrive che lo sbuffo di fumo che il corpo di Palach arso dal fuoco (era il 19 gennaio 2019) disperde sulla sua città è un monumento più duraturo di qualsiasi altro monumento di pietra. Semprún colpisce in profondità lo stato d’animo dei suoi soccorritori con una frase scarna e apparentemente amena: «Non ci sono più uccelli...».
I tre soldati sono increduli. Che strana cosa da dire a chi viene a salvarti. Lui si rende conto che non possono capirlo e allora spiega loro che gli uccelli se ne sono andati a causa del fumo continuo che usciva dai camini del crematorio... Ma ancora non comprendevano l’orrore celato sotto quelle parole. Allora Semprún parla chiaro: «L’odore della carne bruciata, ecco cos’è stato»... Sembra un racconto delle origini. Un mito fondatore, ma era purissima realtà. Andare in fumo: l’«ultimo segno del passaggio dell’anima e del corpo dei compagni», scrive Semprún.
Ciò che resta dell’uomo e sale in alto. Quelle volute grigiastre che ornavano le bocche degli alti camini erano il simbolo di ciò che sembra perduto per sempre; oppure la via di fuga per chi crede che non tutto finisce: «Andarsene dalla ciminiera, andarsene in fumo». Qualche giorno prima di prendere la sua tremenda decisione lo studente Jan Palach scrive a un suo collega di studi – Lubomír Holecek, responsabile dell’Assemblea degli studenti della facoltà di Lettere – una lettera (ritrovata fra gli archivi dell’Università negli anni 70, che qui pubblichiamo) al quale suggerisce – forse immedesimandosi col Maggio francese – un’azione di rivolta che non sia più una testimonianza individuale: occupiamo la radio di Stato – dice – e chiamiamo a raccolta tutti, che te ne pare “collega”? Auspica una protesta di massa contro la censura dei sovietici, non più sopportabile per chi sente il “dovere” della libertà (e non soltanto il bisogno).
Nessuna risposta però, anche se Palach fu tra i creatori del Consiglio accademico degli studenti di cui Holecek era a capo. Studiava filosofia, era interessato alla storia, all’economia, alla politica Jan; aveva partecipato a viaggi di studio della cultura russa (a Leningrado, per esempio), e vissuto gli effetti della Primavera di Praga col vecchio apparato comunista che cercava, sciogliendosi dal diktat sovietico, di realizzare un «socialismo dal volto umano» a cui molti guardavano, anche lo stesso Milan Kundera che negli anni 50 fu poeta stalinista e poi a metà anni Settanta prenderà la strada della Francia per rimanervi.
Un socialismo senza apparati centrali e democratico, che ammettesse un senso critico. Per un giovane aspirante filosofo come Palach, appena ventenne, doveva essere una speranza che riempiva il cuore. Ma i sovietici infransero questo sogno col rumore assordante dei loro cingolati. Esattamente una settimana prima dell’invasione Brežnev aveva telefonato a Dubcek e dopo vari rimproveri per la mancanza di decisione del capo cecoslovacco nel reprimere le libertà che i praghesi si stavano prendendo verso il Pcus e l’Urss (con grave danno per la tenuta del Patto di Varsavia), lo minacciò: «Se non interverrete voi lo faremo noi». Dubcek rispose che non gli risultavano attacchi all’Unione Sovietica, ma Brežnev subito lo zittì: «Come puoi dire una cosa del genere, quanto tutti i giornali – “Literární listy”, “Mladá fronta”, “Reporter”, “Prace” – ogni giorno stanno pubblicando articoli antisovietici e antipartito?» Forse Dubcek – che sicuramente aveva percepito la serietà dell’avvertimento, se non altro perché Brežnev ogni tanto in tono “fraterno” gli si rivolgeva con «caro Saša» – pensò di avere tempo, ma non ne ebbe e una settimana dopo, il 20 agosto 1968, i sovietici entrarono a Praga.
Nelle settimane seguenti il dibattito prese toni spesso pessimisti, oppure attendisti se non opportunisti. Ma non tutti ci stavano, non Jan Palach e alcuni suoi compagni che si sentivano abbandonati a una lenta agonia, e fu così che decisero di sfidare il potere e la morte autoimmolandosi col fuoco. Erano cinque e a lui toccò di inaugurare il rito. Sembra che il loro gesto si sia ispirato al bonzo vietnamita Thích Quang Ðuc che l’11 giugno 1963 si era dato fuoco a Saigon per protesta verso il presidente del Vietnam del Sud, il cattolico Ngô Ðình Diêm, e la sua politica ostile alla filosofia buddhista. Forse, però, l’esempio venne loro da più vicino, sia nel tempo che nello spazio: l’8 settembre 1968 Ryszard Siwiec, impiegato polacco di 59 anni, si era dato fuoco nello Stadio di Varsavia per protesta contro la partecipazione delle truppe polacche all’occupazione della Cecoslovacchia; e il 5 novembre 1968 il dissidente ucraino Vasyl Makuch si cosparse di benzina e s’immolò in una delle strade principali di Kiev, contestando l’azione dei sovietici nel suo Paese e in Cecoslovacchia.
Il 16 gennaio 1969, verso il tramonto, Jan Palach si recò in piazza San Venceslao, ai piedi della scalinata del Museo Nazionale, inzuppò i suoi abiti di benzina e si trasformò in una “torcia umana”. Non morì all’istante, la sua agonia durò altri tre giorni. Il 25 gennaio ai funerali parteciparono seicentomila persone con una processione lungo tutte le principali vie di Praga. Nello zaino aveva lasciato una lettera in cui spiegava la sua scelta: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Dato che ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi vogliamo l’abolizione della censura e la proibizione di “Zpravy” [il notiziario delle forze d’occupazione sovietiche, ndr]. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, il 21 gennaio una nuova torcia s’infiammerà».
Sebbene dopo mezzo secolo da quella tragedia ci si ricordi sempre di lui, anche altri scelsero lo stesso destino: quattro giorni dopo il sacrificio di Palach, l’operaio ventiseienne Josef Hlavatý, si cosparse di petrolio e si diede fuoco morendo cinque giorni dopo; Jan Zajíc, diciannovenne studente moravo, si autoimmolò il 25 febbraio 1969; il 4 maggio 1969, Venerdì Santo, toccò a Evžen Plocek, operaio trentanovenne, che s’incendiò in un sottopassaggio a Jihlava. Per chi lo conobbe, Jan era sano di mente e «aveva un carattere calmo, razionale, voleva diventare filosofo e partecipare al dibattito politico».
Un mese prima dell’invasione sovietica Bohumil Hrabal, pieno di scetticismo, aveva scritto questo pensiero dalle colonne di “Literární listy”: «Spesso mi terrorizza l’idea che lo spirito della storia abbia il senso dell’umorismo e che, con una misura maggiore di libertà e una misura maggiore di informazioni, chiuderà quatto quatto tutti i rubinetti sconvenienti e lascerà scorrere attraverso le nostre teste pian pianino l’acquetta tiepida della convenienza, senza che noi ci accorgiamo di nulla. Vedremo!». A Jan Palach faceva difetto la tiepidezza. E forse sentiva troppa rassegnazione attorno a sé. A quel punto, credette non restasse altro che l’oblazione della propria vita per scuotere il suo popolo (la sua ultima parola sul letto di morte è un monito: «Dedicatevi da vivi alla lotta»).