È stata la regina d’America, icona di stile ed eleganza, immagine dolente di una tragedia che sconvolse il mondo intero e segnò la perdita di innocenza di una nazione. Parliamo di Jacqueline Kennedy, raccontata dal regista cileno Pablo Larrain in
Jackie, il suo primo film in lingua inglese, ieri in concorso a Venezia e in uscita nelle nostre sale a gennaio. Interpretato da Natalie Portman, che si piazza in
pole position tra le candidate alla Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile,
Jackie non è un classico
biopic, ma il ritratto impressionistico di una donna costretta ad affrontare la più grande crisi della sua vita, osservata nei quattro giorni che separarono l’omicidio del marito, il presidente americano John Fitzgerald Kennedy, avvenuto a Dallas il 22 novembre 1963, dagli spettacolari funerali di stato, organizzati dalla stessa first lady sul modello di quelli di Abraham Lincoln, anche lui assassinato.Il film non segue un ordine cronologico, bensì emotivo, come ha sottolineato lo stesso Larrain, sovrapponendo tre linee temporali su cui si innestano i fatti principali: un presente in cui la protagonista, a una settimana dall’assassinio, si lascia intervistare da un giornalista, un recentissimo passato che mette in scena per schegge e frammenti un dramma ancora tutto da metabolizzare e un passato gioioso, fatto di progetti e speranze, dove i Kennedy erano per l’America ciò che più si avvicina a una famiglia reale. E se il nero avvolge Jackie nel momento del lutto e il bianco la rende gelida nei giorni successivi, gli abiti rossi la accendono tra le stanze della Casa Bianca animata da musiche e danze, mentre il tailleur rosa insanguinato diventa simbolo di una tragedia che le immagini televisive hanno reso immortale.Il film riflette sul sentimento della perdita (di una persona amata e di un posto in “paradiso”), sul rapporto tra l’immagine pubblica di Jackie, una delle donne più fotografate del ventesimo secolo, e quella privata, ricostruita dalla sceneggiatura. Così possiamo solo immaginare quello che la vedova raccontò al giornalista che la intervistava e che non gli per-È mise di pubblicare e quello che confessò al prete che le stava vicino nel momento più doloroso: la crisi del suo matrimonio, l’incapacità di dare un senso a ciò che stava accadendo. Di fronte a domande alle quali non sappiamo rispondere, dice il prete, possiamo cedere alla disperazione, accettare ciò che accade oppure smettere di interrogarci. Quello che è certo, aggiunge, è che «Dio nella sua immensa saggezza ci ha dato la forza di ricominciare daccapo, ogni giorno, dopo il caffè del mattino». «Raccontare una storia così celebre dal punto di vista di Jackie – racconta il regista, arrivato al Lido con la Portman, in dolce attesa – era un’occasione davvero speciale, che io ho colto con la consapevolezza che il mistero intorno a lei non potrà mai essere completamente dissipato. Tutto quello che potevo fare era mettere insieme pezzi di memoria, luoghi, idee, immagini, suggestioni, persone. Molte cose che accaddero all’indomani della morte di Kennedy possiamo solo immaginarle, ma in pochi giorni Jackie trasformò suo marito in una leggenda, definendo una volta per tutte la sua eredità spirituale». Nonostante i molti applausi delude invece
Voyage of Time: Life’s Journey, il documentario di Terrence Malick sulla storia dell’universo, dal Big Bang ai nostri giorni. Tra cielo, terra e mare, microscopico e macroscopico, il regista ci conduce in un poetico viaggio di novanta minuti tra passato, presente e futuro, costruito con immagini documentaristiche (quelle dal vero si mescolano a quelle ricostruite da effetti visivi) accompagnate da un testo recitato dalla voce off di Cate Blanchett. Mentre la versione di 45 minuti destinata alle sale Imax (quelle in cui lo spettatore è completamente avvolto dalle immagini) è narrata da Brad Pitt, che figura tra i produttori del film. Ma a dispetto delle intenzioni del regista, deciso a offrire al pubblico una profonda riflessione su un’umanità alle prese con le grandi domande sulle proprie origini, il proprio destino, il senso della nostra esistenza, questa storia planetaria raccontata in ordine didascalicamente cronologico non emoziona, e le immagini create al computer finiscono per rendere tutto troppo artificiale scollando le parole da ciò che osserviamo scorrere sullo schermo.