È stato uno dei 5 invitati alle seconde nozze di Václav Havel nel 1997, quando il drammaturgo e fondatore di «Charta 77» ha sposato in segreto l’attrice Dasa Veskrnova, pochi mesi dopo la scomparsa della prima moglie Olga Havlova – molto amata dai praghesi. Ed è stato per quasi 6 anni, dal 1993 al 1998, il braccio destro del presidente ceco al Castello di Praga, come suo fedelissimo capo di gabinetto.Eppure pochi immaginerebbero che Ivan Medek – oltre che anticomunista a tutta prova, tra i primi firmatari di «Charta 77», dissidente a lungo perseguitato dal regime e costretto ad espatriare dal 1978 alla caduta del Muro – sia anche un cattolico, anzi un convertito: perché non è del tutto scontato pensare che l’intellettuale più «laico» del dissenso, il presidente agnostico Havel, abbia personalmente voluto al suo fianco un credente convinto come Medek. Eppure lo racconta il protagonista stesso, che oggi ha 84 anni e vive a Praga, in un libro intitolato «A gonfie vele» nel quale raccoglie alcune conversazioni radiofoniche autobiografiche e che la ricercatrice udinese Tiziana Menotti ha tradotto in italiano sia per la sua tesi di specia-lità, sia con la speranza di trovare un’editrice che faccia conoscere anche da noi la straordinaria esperienza di un uomo purtroppo poco conosciuto nel Belpaese.E invece Medek viene da una famiglia molto nota in Cecoslovacchia: la nonna materna di Ivan, rimasta vedova di Antonín Slavícek (il maggiore esponente dell’impressionismo ceco, morto suicida appena quarantenne), si era risposata con il pittore Herbert Masaryk, figlio di Tomáš Garrigue Masaryk primo presidente della Cecoslovacchia dalla fondazione delle Repubblica nel 1918 al 1935. Casa Medek dunque fu per tutti gli anni Venti uno straordinario foyer culturale, ma anche politico, assai vivace e accolse molti degli spiriti più creativi della nazione. Anche Rudolf Medek, padre di Ivan, arruolatosi nel 1917 come volontario per combattere gli austriaci in Russia, era poeta e scrittore. Né la vena artistica familiare si era esaurita lì: Mikuláš – fratello minore di Ivan, morto nel 1974 – è considerato uno dei maggiori rappresentanti della pittura contemporanea ceca. Ivan, nato nel 1925, ha talento da musicista: ha studiato al conservatorio fino al colpo di Stato filo-sovietico del 1948, poi ha fatto il manager nella Filarmonica ceca prima di essere licenziato per motivi politici, quindi ha lavorato presso una casa discografica, poi come inserviente in un ospedale, da lavapiatti in un’osteria: sempre più giù nella scala sociale ma sempre senza perdere la sua dignità e l’aristocratica ironia. Nel 1968 Medek ha partecipato pure ai fermenti della Primavera di Praga con Havel («Era il più giovane di noi ma aveva le idee molto chiare e assunse la direzione» del gruppo, testimonia). Nel frattempo però aveva incontrato il cristianesimo: «La conversione di Ivan Medek al cattolicesimo – scrive Tiziana Menotti – avvenuta negli anni Cinquanta acquisì vigore per la frequentazione di diversi sacerdoti che avevano resistito alle pressioni del regime per una Chiesa nazionale staccata dal Vaticano, pagando con la persecuzione e il carcere duro la loro fedeltà a Roma. Tra questi c’era Antonín Mandl, collaboratore del cardinale Beran e segretario dell’Azione cattolica cecoslovacca che, come molti altri prelati, aveva trascorso parecchi anni in prigione prima di essere rilasciato negli anni Sessanta». Padre Mandl introdusse Medek presso numerosi sacerdoti dissidenti, come l’abate e poeta Anastáz Opasek (arrestato nel 1949 con l’accusa di tradimento e spionaggio per il Vaticano e condannato all’ergastolo nel 1950), Ota Mádr, Josef Zverina, Antonín Bradna o il salesiano padre Mrtvý: «Dopo essere usciti di prigione si incontravano di tanto in tanto e a volte mi invitarono alle loro riunioni. Lì conobbi persone che non dimenticherò. Quasi cominciai a invidiare le loro esperienze del carcere. Nonostante le guardie spesso li avessero picchiati e fossero stati volgari con loro, essi avevano conservato una libertà radiosa, quale pochi avevano al di là del muro del carcere. L’attività di questi cristiani fu stimolante sotto tutti gli aspetti. Essi ad esempio aprirono discussioni pubbliche tra cristiani e marxisti. Era sempre pieno di gente, accadeva davvero qualcosa. Durante la normalizzazione queste attività furono vietate, ma un seme rimase e più tardi da esso nacquero vari gruppi indipendenti ». Grazie a tali conoscenze, Medek diventa uno dei principali collegamenti tra dissenso laico e religioso: «Nel marzo 1968 – ricorda – Karel Pilík, un prete cattolico che come gli altri sacerdoti scarcerati non aveva il nulla osta dello Stato per l’esercizio dell’ufficio sacerdotale e lavorava come operaio, propose una petizione per rivendicare la distensione del rapporto tra lo Stato e la Chiesa, il ripristino delle scuole ecclesiastiche, l’insegnamento della religione, la nomina dei vescovi e così via. Stilammo la petizione e Pilík propose di farla firmare anzitutto ai vescovi. Io avevo a quel tempo un’automobile Škoda e andammo dai vescovi. Incominciammo con il vescovo Tomášek; non era ancora cardinale. Rifletté a lungo, ma alla fine firmò. Poi, uno dopo l’altro, facemmo visita agli altri vescovi. Moltissimi di loro avevano una paura terribile. Erano stati rilasciati dal carcere con la condizionale e non volevano ricadere in qualche violazione. Ma firmarono tutti. Poi andammo nei monasteri e alla fine facemmo firmare la petizione ai credenti. Raccogliemmo circa 336.000 firme. Consegnammo la petizione, ma loro la bloccarono. Non se ne fece assolutamente nulla ». Nel gennaio 1977 Medek è uno dei primi fra i 1900 firmatari di «Charta 77»: «Me la portò un amico al caffè nel dicembre 1976. Disse che avevano riflettuto se farmelo firmare, perché per me poteva significare la fine dell’esistenza. Dissi che lo sapevo, ma firmai. A volte, dopo Natale, ci riunivamo nell’appartamento di Havel e ordivamo piani. Lì si decise chi sarebbe stato il portavoce e quando sarebbe seguita la riunione successiva, doveva essere in gennaio. Solo che finimmo in trappola». Medek viene subito licenziato, ma fa causa alla ditta e durante il processo il suo avvocato chiede inutilmente che venga letto in aula il motivo del licenziamento, cioè «Charta 77»: un pretesto per rendere pubblico il documento. «Nel maggio 1978 – continua Medek – mi capitò un fatto spiacevole. Dopo un interrogatorio alla polizia segreta mi portarono via di sera con gli occhi bendati in un bosco. Mi pestarono un poco finché persi conoscenza, se ne andarono e mi lasciarono lì. Allora pensai che se volevo compiere davvero un lavoro proficuo, non potevo farlo in patria in quelle condizioni». Medek lascia dunque il Paese per trasferirsi a Vienna, dove lavora per le emittenti radiofoniche Voice of America e Radio Free Europa svolgendo un importante lavoro di controinformazione diretta alla Cecoslovacchia. Solo nel 1989 potrà tornare in patria: «All’incontro di fine anno di Charta 77 e dei suoi fautori incontrai Václav Havel, a quel tempo già presidente. Gli chiesi un’intervista. Il presidente mi ricevette al Castello il 14 gennaio. Mi chiese che cosa poteva fare per me. Dissi che ero venuto a chiedergli che cosa potevo fare io per lui». Infatti, dopo aver lavorato qualche tempo per il governo, Medek diventa – già anziano – il braccio destro di Havel. «Fu uno dei periodi più belli della mia vita. Václav Havel è una persona enormemente interessante e bisogna prenderlo così com’è. È anche una persona straordinariamente coraggiosa. Si è rivelato tale in tutti i momenti della sua vita: in prigione, durante gli interrogatori e durante il lavoro in ufficio. Inoltre è sensibile, vulnerabile: ciò non dovrebbe corrispondere al suo coraggio. Non ha la pelle dura. Ed è molto modesto. Quei 6 anni al Castello per me non significarono soltanto lavoro e spesso decisioni politiche complicate, ma soprattutto la possibilità di conoscere da vicino una persona di cui sono convinto che, per la nostra repubblica, abbia fatto più di qualsiasi altro».