Per evitare spropositi, parolepensieri a rischio, considerazioni sgradevoli o sproloqui antisistema, Leo Longanesi suggeriva «parliamo dell’Elefante», ovvero di divagare, consiglio che avrei colto al volo , in questa valle di lacrime, affrontando il tema “parliamo dell’Islanda”, argomento a tutti gradito, soprattutto se i coraggiosi “Son” dopo l’Inghilterra avessero affondato anche la Francia. E invece no: al grido di “allonsanfan” Pogba e compagni hanno allegramente asfaltato i prodi islandesi che tuttavia non hanno pianto dopo il tambureggiante 4-0 - e anzi si sono permessi due onorevolissimi gol - né alla fine, quando al 5-2 conclusivo si sono concessi un memorabile festone tribale. Giusto per farci capire cos’è lo sport nella sanissima terra dei fuochi. Noi no. Dopo la sbornia di Bordeaux (Zaza e Pellè parevano invero dolcemente ebbri) ci siamo consegnati ai rigori e alle lacrime da quelli provocate. Per ore e ore radio e televisioni hanno rilanciato l’antica filastrocca «sette volte i rigori abbiam sbagliato/ sette volte mondiali ed europei abbiam perduto» (per non parlare del malefico golden gol) sicché gli appassionati non si chiedevano le ragioni tecniche di una sconfitta (risposta semplice: non siamo stati capaci di realizzare due gol nei tempi regolamentari - come fece il rimpianto Balotelli quattr’anni fa proprio ai tedeschi - anzi abbiamo desiderato i supplementari come se fossero la nostra unica chance di successo, rigori compresi) ma perché l’Italia perda tante volte ai rigori. Sono stato sollecitato da lettori, amici e conoscenti a dare una risposta, nonostante giacessi anch’io - tifosissimo dell’Azzurra - percosso e attonito dopo l’amarissima cacciata dagli Europei che “volevo” vincere. E allora rispondo subito al grave quesito: l’Ora dei Rigori non è - come spesso si dice - una lotteria ma semplicemente l’Ora della Verità. Il nostro calcio vive di raffinati e coraggiosi disegni tattici che solo i vanagloriosi rifiutano di chiamare «catenaccio», nobile o plebeo; ne siano maestri, tanto che il bravo Joachim Low ha deciso di batterci con le nostre stesse armi, rinunciando al classico attivismo pedatorio dei teutoni e dedicandosi alla sistematica distruzione del nostro gioco peraltro impoverito da importanti vuoti a centrocampo; in difesa, la Germania è stata all’altezza del mitico reparto juventino, e al momento opportuno Neuer è stato più bravo di Buffon, parando il rigore decisivo. Dagli undici metri, davanti a una porta larga sette metri e trentadue centimetri, un’enormità, non c’è tattica o marchingegno che tenga: ognuno è solo con se stesso e al momento di colpire il pallone può trovarsi non sereno e deciso come il vecchio Barzagli e il baby Kimmich ma vuoto d’animo o di mente, come tre dei loro e, purtroppo, quattro dei nostri. S’è detto e scritto - secondo tradizione, ma non su questo giornale - che siamo usciti dal torneo a testa alta, un motivetto che non mi piace, preferendo lo slogan bonipertiano «vincere non è importante, è l’unica cosa che conta». A una “derrota gloriosa” preferisco sostituire un’uscita più che dignitosa da un torneo che - stando alla maggioranza degli osservatori - non eravamo neppure in grado di affrontare; al pianto italico preferisco opporre l’inedita esaltante prova d’orgoglio di una squadra appena nata con gran travaglio eppur capace di esibire compattezza, determinazione, fratellanza, solidarietà, virtù che Conte ha potuto amalgamare grazie a un gruppetto di generosi gregari sostenuti dalla mitica difesa juventina. Si è spesso richiamata, mentre gli azzurri battevano Belgio, Svezia e Spagna, l’Italia mondiale del 1982: ragazzi straordinari, quelli di Bearzot, ma quanti campioni, fra loro, capaci di domare Argentina, Brasile, Polonia e Germania. Di questa amatissima Nazionale si ricorderà nel tempo più la statura morale di quella tecnica ed è motivo di soddisfazione e insieme di preoccupazione. Perché Antonio Conte, andandosene, lascia a Giampiero Ventura soltanto una favola e pochi soldati forti e sicuri; lascia il disegno inedito di un collettivo amorosamente affiatato, frutto della sua non ordinaria sensibilità, che difficilmente il nuovo ct potrà riproporre essendo professionista di qualità ma dotato di ben altre armi, dico innanzitutto l’esperienza annosa e lo spirito serenissimo opposto al carattere luciferino, al trasporto mistico (così lo ha definito Tavecchio, e l’ho capito) del suo predecessore. C’è dunque - per l’ennesima volta - un’Italia da rifare, prima recuperando i grandi assenti come Marchisio e Verratti, fors’anche Balotelli, poi confermando i sicuri Bonucci, Florenzi, De Sciglio, Insigne, Parolo, infine cercando nei serbatoi delle nazionali giovanili (come ha suggerito un Sacchi straordinariamente saggio e forse aspirante al ruolo negato a Lippi) forze nuove utili anche a un campionato che si nega colpevolmente ai giovani italiani. Ho sentito parlare di “accompagnatori” del vecchio Ventura, addirittura di tecnici bivalenti (squadra di club e Nazionale gestite insieme) come tristemente accadde nel dopo Corea del ’66 con l’interista Helenio Herrera: pensieri in libertà dopo la sconfitta che prima o poi gli esultanti occasionali attribuiranno a Conte (oggi si limitano a offendere Zaza e Pellè). Per quel poco che so, vicino a Ventura c’è già un signor campione e condottiero insieme, e si chiama Gigi Buffon. Sue le uniche lacrime che hanno sollecitato le mie.