Fu la politica piemontese fra il 1848 e il 1861 che impostò le grandi linee del quadro legislativo, in materia ecclesiastica, esteso poi all’Italia dopo l’unificazione. La storiografia su questo tema, fin dai suoi esordi, all’inizio del ’900, ha ben individuato le due tendenze presenti in tale politica: una prima tendenza separatista, volta ad eliminare privilegi ed esenzioni, secondo le esigenze dei moderni Stati liberali, e a ridurre la Chiesa all’interno del diritto comune, come imponeva l’obiettivo di allineare il Piemonte agli standard europei; una seconda tendenza neo-giurisdizionalista che era di fatto un’ingerenza di intonazione nettamente anticlericale dello Stato nella Chiesa. Di queste due tendenze, vincitrice fu la seconda, con conseguenze di grande rilievo sulla storia successiva. Sulla strada del separatismo si pose la legge Siccardi del 9 aprile 1850, volta a sopprimere l’autonomia del foro ecclesiastico in ogni genere di controversia o processo, cioè il diritto degli ecclesiastici a godere di un trattamento giudiziario separato rispetto al resto dei cittadini, nonché a sopprimere il diritto di asilo nelle chiese e nei luoghi immuni. Questa legge ebbe una fondamentale importanza nello svolgimento del diritto pubblico italiano. Ma altre leggi, come si diceva – relative, in particolare, agli ordini religiosi e alle istituzioni ecclesiastiche – ebbero un’intonazione diversa e furono improntate a un aggressivo neo-giurisdizionalismo. La prima fu quella del 21 luglio 1848 che soppresse la Compagnia di Gesù ed espulse dallo Stato i gesuiti non piemontesi. Analoga sorte toccava alle Dame del Sacro Cuore, largamente diffuse nella Savoia. Si trattò di un provvedimento grave, come ammise più tardi lo stesso Cavour, che smentiva i presupposti liberali sui quali il Piemonte stava costruendo il proprio edificio costituzionale. Ben più rilevante fu però la legge 878 del 9 maggio 1855, con la quale venivano unilateralmente soppressi gli ordini religiosi giudicati non socialmente utili: 21 maschili e 13 femminili, per un complesso di 335 sedi e 5489 persone, 3733 uomini e 1756 donne. Anche in questo caso fu Cavour ad ammettere che il Piemonte liberale, per ridurre il potere della Chiesa, aveva dovuto negare se stesso. Secondo Rosario Romeo, infatti, la legge del 1855 «rappresentò lo scostamento più sensibile» dalla politica liberale e separatista della formula «libera Chiesa in libero Stato». Scostamento che ebbe un effetto probabilmente non previsto dal legislatore: quello di aprire una breccia, di creare un precedente. La strada seguita allora diverrà, infatti, la strada maestra della politica ecclesiastica italiana. La linea anticlericale aveva vinto una battaglia decisiva. Nel biennio 1859-61 questa legislazione piemontese fu estesa ai nuovo territori che via via venivano annessi. Ma dopo l’unificazione il quadro legislativo si presentava disorganico e incoerente e c’era soprattutto da colmare il drammatico deficit di bilancio. Si giunse così alle due grandi leggi di esproprio della proprietà ecclesiastica del 1866 e 1867 (rispettivamente 3096 e 3848), con le quali venivano soppressi gran parte degli istituti ecclesiastici italiani, regolari e secolari, con incameramento dei loro beni e secolarizzazione dei rispettivi membri. Queste due leggi diedero il colpo decisivo alla Chiesa come corpo privilegiato e grande potenza immobiliare. Insieme con la legge 1402 del 1873 – che estese a Roma i precedenti provvedimenti, adattandoli alla complessa situazione della capitale, dove erano presenti le case generalizie e interessi di governi esteri – rimasero alla base della legislazione ecclesiastica italiana fino al 1929. Ma il risultato della politica anti-ecclesiastica sardo-italiana fu ben diverso da quello voluto. Passato il momento difficile, le associazioni religiose si riorganizzarono, sfruttarono tutte le possibilità offerte dalla nuova normativa del Regno, si ripresentarono in forme canonicamente rinnovate (la congregazione, generalmente garantita da un semplice riconoscimento diocesano), individuarono inediti campi d’azione (la marginalità sociale, gli asili, la scuola, i giovani, gli orfani, la stampa, le missioni nei continenti nuovi), crearono figure nuove e prima inesistenti come la suora. Intervenendo alla Camera nel 1895 Francesco Crispi ammise che lo Stato aveva perduto la sua battaglia contro gli ordini religiosi. Ma l’aveva perduta anche per un altro motivo. La legislazione anti-ecclesiastica aveva mirato fin dall’inizio (pensiamo a Bettino Ricasoli) a provocare la riforma in senso liberale della Chiesa. E invece accadde che al Chiesa si riformò sì, profondamente, ma in direzione esattamente opposta: rinserrandosi attorno al papato e centralizzando, cioè "romanizzando", tutta la propria struttura. Nel giro di pochi decenni, quella che ancora nella seconda metà del Settecento era, di fatto, una federazione di Chiese nazionali, si trasformò in una compatta organizzazione internazionale, disciplinarmente e teologicamente sottoposta al Papa e agli organismi curiali. Roma divenne contemporaneamente fonte del potere, centro di elaborazione del pensiero teologico-canonistico, luogo di formazione del personale dirigente. Le vicende dell’unificazione nazionale produssero insomma una trasformazione del cattolicesimo esattamente opposta a quella desiderata dalle classi dirigenti piemontesi e italiane. Un caso da manuale di eterogenesi dei fini.