Rugby. Al 6 Nazioni l'Italia stupisce con l'achimia tattica
Hanno fatto il giro della rete le facce smarrite del capitano inglese Dylan Hartley e del suo vice mentre, nel bel mezzo del primo tempo di Inghilterra-Italia durante il Torneo del 6 Nazioni di Rugby (più semplicemente conosciuto come “The Champion-ship”), chiedevano all’arbitro francese Romain Poite: «Signore, gli italiani non entrano nelle ruck, come possiamo fare a costringerli?» e l’arbitro con serenità olimpica (e una punta di soddisfazione, immagino) rispondeva: «Io sono l’arbitro, non il vostro allenatore, non so che dirvi».
La ruck è quella situazione che viene normalmente a crearsi in seguito al placcaggio di un attaccante da parte del difensore. A quel punto il pallone diventa «contendibile», perché non può essere né tenuto né giocato da terra: quindi o i due giocatori si rialzano rapidamente sulle loro gambe e il più lesto tra i due raccoglie il pallone e scappa via oppure, il più delle volte, i loro compagni entrano a contatto per impossessarsi della palla, cercando gli uni di «spazzare via» gli altri. Da quel momento si ha una situazione di ruck, nella quale la linea immaginaria che passa per il pallone delimita la linea di fuorigioco - che non può essere sopravanzata pena sanzione - dalla quale è possibile ripartire solo dopo aver tallonato il pallone. Lo scopo della ruck è “fissare” un punto da cui fare ordine, rischierarsi e ripartire mentre si tengono impegnati il maggior numero di giocatori avversari possibile. Se tale situazione non si determina, ovvero se una delle due squadre non va a contendere il pallone in ruck ma attende che l’avversario riparta, non c’è fuorigioco.
Diversamente dal calcio, il rugby ha subito moltissime innovazioni regolamentari nel corso della sua ultracentenaria esistenza, tutte volte a favorire la spettacolarità del gioco. Allo stesso tempo, il dominio di questa o quella squadra a livello globale ha imposto veri e propri “cicli”, nei quali certe impostazioni prevalevano. Ne- gli anni Settanta e Ottanta, l’egemonia francese nell’emisfero Nord e quella australiana a Sud diffusero un gioco molto arioso, fantasioso, “aperto”, definito «rugby champagne». Più recentemente il dominio sudafricano e neozelandese - unito alla marcata professionalizzazione di uno sport rimasto amatoriale anche ai massimi livelli fino agli anni Ottanta appunto - hanno “imposto” un gioco più fisico, maggiormente di collisione in cui la ruck era interpretata come il solo modo di uscire da una situazione placcato-placcatore. Nella partita con l’Inghilterra, l’Italia ha deciso di non andare a contendere in ruck il pallone, per evitare di fare il gioco degli inglesi (più forti e che hanno nella pulizia in ruck una delle loro eccellenze). Gli italiani hanno applicato il regolamento (un dogma per ogni rugbista che si rispetti) ma si sono adattati all’avversario per disorientarlo. E ci sono riusciti per 40 minuti, se alla fine del primo tempo gli Azzurri erano avanti sui Bianchi di Inghilterra per 15-10. Ora il lettore deve capire due cose. Nel rugby, i più forti battono i più deboli: sistematicamente e pesantemente. La fortuna, il caso, il colpo di genio del giocatore estroso - da soli - non condizionano nessuna partita. Stare al regolamento e battersi lealmente è richiesto a entrambi: e ci vuole un coraggio da leoni per giocare contro una squadra di levatura molto superiore che mostrerà il suo rispetto verso l’inferiore trattandola da pari, ovvero segnandole tutti i punti che potrà, fino all’ultimo minuto di gioco. Ciò detto, accanto al coraggio e alla lealtà, questo sport premia la capacità di adattamento e non prevede che il debole accetti il ruolo di vittima sacrificale, al di là delle chance che abbia (o più spesso non abbia) di capovolgere il pronostico.
Adattamento non significa però improvvisazione: ma studio delle caratteristiche dell’avversario per individuarne i punti deboli, elaborazione di una strategia di gioco ad hoc, sperimentazione in allenamento e quindi applicazione in campo. La tenacia è infatti un altro dei tratti essenziali di ogni buon giocatore. C’è stata così poca improvvisazione da parte del team tecnico italiano (il coach irlandese Conor O’Shea e l’allenatore della difesa, il sudafricano Brendan Venter) che, nell’incontro pre-partita che i tecnici delle due squadre hanno con l’arbitro per confrontarsi sulla sua interpretazione del regolamento (ve lo immaginate nel calcio?), O’Shea e Venter hanno proprio chiesto lumi a Poite sul suo modo d intendere la ruck. E questo è un altro punto importante di questo meraviglioso gioco - dove «metterci la faccia» non è una sparata propagandistica ma significa essere pronti a cacciare la testa dove molti avrebbero paura di mettere un piede, pur di portare sostegno a un compagno - per cui le regole esistono e cambiano spesso, ma in campo l’arbitro è come il comandante di una nave: secondo solo a Dio. Al quale possono rivolgersi, rispettosamente, solo i capitani. È un gioco duro, senza dubbio, ma nel quale intelligenza, coraggio e lealtà contano più delle dimensioni di chi lo gioca. È una lealtà che si allarga per cerchi concentrici: i propri compagni di squadra, i rugbisti del mondo e contagia anche il pubblico, che tante volte è composto da ex giocatori; pardon: da giocatori non più in attività, perché come si dice, «un giocatore di rugby può dover smettere di giocare, ma mai di essere un rugbista».