Il 10 febbraio 1947 viene firmato il trattato di pace, ma già due mesi prima, nel dicembre 1946, da Pola era iniziato l’esodo, con 28.050 abitanti su 34 mila che avevano dichiarato di voler lasciare la città. Un esodo che dura anni e si estende all’Istria e alla Zona B del Territorio libero di Trieste, ancorché il 28 marzo 1947 il Consiglio dei ministri informi che «il piroscafo
Toscana ha compiuto l’ultimo viaggio a Venezia» e che «si è concluso così il tragico spontaneo esodo degli italiani». Ne sa qualcosa uno di questi profughi, monsignor Eugenio Ravignani, vescovo emerito di Trieste. «Avevo dodici anni quando con mia madre sono sfollato da Pola, raggiungendo Trieste dopo un rischioso viaggio ferroviario in carro bestiame Ricordo che eravamo pure tanti ragazzi e che insieme facevamo tanto chiasso: evidentemente a noi sfuggiva la drammaticità del momento». Ravignani è stato sempre molto sobrio nel dare testimonianza della sua esperienza. Ma con passione fa memoria delle «pagine di fedeltà e amore» scritte dalla Chiesa, vicina alle popolazioni nei momenti più tristi e duri, «che non furono soltanto i tempi dell’odio e delle rivendicazioni nazionalistiche, ma anche quelli di un’autentica persecuzione delle comunità cristiane e dei loro sacerdoti ». Due nomi per tutti, fra i martiri: don Francesco Bonifacio e don Miro Bulešic, oggi beati. La Chiesa si dimostrò altrettanto evangelica accompagnando gli esuli ed i profughi, protagonisti del Giorno del ricordo che si celebra proprio il 10 febbraio. Accompagnando per condividere le sofferenze di questo popolo costretto a lasciare le proprie case, ma non in fuga. Come certifica la testimonianza di monsignor Raffaele Radossi, vescovo di Pola. «A ogni partenza del
Toscana da Pola era là a confortare e salutare chi abbandonava la propria terra e la propria città – è la memoria che gli tributa Ravignani – . Poi, con il penultimo viaggio della motonave
Pola se ne andò anche lui. Non s’era sentito di staccarsi da coloro che abbandonavano i loro paesi e per andare incontro ad un futuro incerto, quasi senza speranza». «Un atto d’amore » tanto che Radossi anche da arcivescovo di Spoleto, ha continuato a essere un punto di riferimento nella difesa dei diritti della sua gente. Così come monsignor Ugo Camozzo, di origini veneziane. Anche lui, da vescovo di Fiume, è stato costretto a lasciare la diocesi. «Conosco l’amarezza del distacco dall’incantevole Fiume, gemma del Carnaro – così si esprimeva Camozzo rivolgendosi ai suoi –. Qualcuno porta con sé un pugno di terra. Sono partiti i ricchi e sono partiti i poveri. Ora siete dispersi nei vari centri di raccolta. Da una condizione di benessere siete passati ad una vita di privazioni e di rinunce. Qualcuno chiederà: perché mai avete lasciato la vostra città? Nel vostro sacrificio di epica portata, che la storia consacrerà, c’è l’espressione dolorosa dei più alti valori spirituali della vostra fede e di amore patrio. È con cuore lacerato che monsignor Pietro Doimo Munzani, arcivescovo di Zara dal 1933 al 1948, lascia la città. «Una città – così la descriverà, raccontandola ai suoi esuli che incontrava nei centri di raccolta – negli ultimi tempi aveva conosciuto la devastazione dei bombardamenti alleati, la presenza di militari stranieri, deportazioni e guerra civile; sofferenze di ogni genere ridussero la popolazione zaratina ad uno sparuto e miserabile acervo di poveri esseri senza speranza e senza avvenire». Ravignani ricorda con venerazione l’arcivescovo Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria dal 1938 al 1975 e in precedenza a Fiume, dal 1933 al 1938. «Fu suo il dolore per le vittime delle foibe, fu sua la ferma condanna di ogni ideologia che umiliasse la dignità della persona umana e ne impedisse la testimonianza delle propria fede – gli dà merito Ravignani –. Gli esuli li accolse a Trieste, dove i campi di raccolta cingevano la città. Ad alleviare la loro sofferenza era la sua carità, aperta e generosa; a ridestare speranza vi era l’impegno del suo interessamento perché condizioni migliori fossero assicurate alle famiglie che vivevano nella precarietà di una sistemazione provvisoria e ai giovani si aprissero prospettive di dignitoso lavoro». Tutt’altro che una fuga, dunque, quella dei vescovi e dei loro preti. «Fino a quando fu possibile, i sacerdoti rimasero al loro posto – testimonia Ravignani – in Istria, a Fiume, in Dalmazia, consapevoli della loro responsabilità di pastori. Se seguirono coloro che se n’erano andati, fu soltanto quando li costrinsero a partire il clima sempre più ostile, la propaganda antireligiosa sempre più intensa e la sistematica persecuzione, subdola o palese che fosse».