Agorà

CINEMA. «Israele e Palestina il mio film per unire»

Alessandra De Luca giovedì 28 febbraio 2013
​Un drammatico scambio di identità, due bambini confusi nella culla e allevati dalle famiglie "sbagliate". Il fatale errore scoperto per caso, lo strazio dei genitori e dei figli. Ma cosa accade quando ad essere scambiati sono un neonato israeliano e uno palestinese? Ce lo racconta la regista ebrea francese Lorraine Lévy in Il figlio dell’altra (nelle sale dal 14 marzo distribuito da Teodora) presentato in anteprima a Milano durante una serata organizzata all’Anteo dalla Comunità Ebraica e dalla Provincia. Realizzato con cast e troupe mista di israeliani, palestinesi e francesi, parlato in quattro lingue, il film fotografa con grande sensibilità e verità lo scompiglio nelle due famiglie costrette a interrogarsi sulle rispettive identità e convinzioni, sul sentimento di appartenenza e sull’ostilità che continua a dividere i due popoli. Ne abbiamo parlato con la regista che in questi giorni accompagna il suo film in Italia.Le famiglie sono spesso un interessante microcosmo attraverso il quale osservare le tensioni che si agitano nella società.  La famiglia è un tema che mi appassiona molto sin dal mio primo film, La premiere fois que j’ai eu 20 ans, perché prefigura i ruoli che ognuno avrà poi nella società. Scoprendo la verità i due padri del film hanno l’impressione di aver perso un figlio, le due madri invece ne hanno guadagnato uno. Donne e giovani rappresentano la speranza in un futuro di pace. I giovani che ritraggo nel film sono lo specchio fedele di quelli che ho incontrato: palpitanti di vita, desiderano pace e spensieratezza. Gli uomini mi fanno tenerezza perché soffrono di più, ancorati come sono alla memoria, all’obbligo di trasmettere quanto loro stessi hanno appreso dai padri, prigionieri della loro condizione di uomini con il dovere di difendere il paese e le sue regole. Non sono in grado di mostrare le proprie emozioni, a differenza delle donne, sempre in contatto immediato con la propria emotività.Tutti gli esseri umani vogliono in fondo la stessa cosa: vivere in pace con la propria famiglia. Solo le donne però sembrano intuire questa semplice verità. Le donne non cercano il potere fine a se stesso, ma desiderano il cuore delle persone che amano. Le madri poi hanno una relazione speciale con la vita. Ricordo una donna iraniana in un notiziario che urlava agli uomini: «Noi facciamo i figli e voi li mandate al macello».  Non teme, non essendo israeliana né palestinese, che qualcuno l’accusi di non avere il diritto di affrontare una questione del genere?All’inizio ero terrorizzata, poi mi sono detta: sei cittadina del mondo e hai il diritto di piazzare la macchina da presa ovunque, a condizione di mantenere una posizione di grande umiltà. Il mio film non è lezione di storia, ma un invito al sogno, pensando allo scrittore israeliano Amos Oz che amo moltissimo. Tutto quello che mostro è vero, compreso quel muro che è come una cicatrice. Mi auguro che dal sogno possa nascere una realtà differente.Nessuna difficoltà sul set?C’è stato un grande lavoro di riflessione sulla sceneggiatura con gli attori e la troupe. Alla vigilia della scena del confronto tra i due padri avevo la sensazione che ci sarebbero stati problemi tra i due attori. Pascal Elbé, ebreo francese, è favorevole allo Stato di Israele, mentre Khalifa Natour, palestinese, è molto impegnato politicamente. La sera prima li ho riuniti intorno a un tavolo e ho chiesto cosa pensavano di dire. Hanno cominciato a discutere animatamente, ognuno dei due pretendeva l’ultima parola. Li ho ascoltati, abbiamo negoziato e riequilibrato il tono del dialogo e il giorno dopo abbiamo girato.  Le nuove generazioni discutono diversamente?  Nella troupe c’era una truccatrice israeliana con due figli impegnati nel servizio militare a Gaza. Il capomacchinista era invece un palestinese il cui nipote era anche lui nella striscia di Gaza. All’inizio delle riprese i due si salutavano a malapena, alla fine pranzavano insieme, si scambiavano foto e notizie. La sofferenza è identica da entrambe le parti, il desiderio che tutto questo finisca è comune. I giovani vogliono la pace: speriamo riescano presto a sostituire le persone che in ruoli chiave mantengono posizioni estreme.