«Diverse concezioni e tradizioni interne all’islam offrono già delle opportunità per uscire dagli stalli dello stesso islam. In questo senso, ho scritto un trattato terapeutico». Nel saggio
Uscire dalla maledizione. L’islam fra civiltà e barbarie, in uscita oggi per Cantagalli (pp. 272, euro 22), il pensatore franco-tunisino Abdelwahab Meddeb rivendica l’«utilità» della filosofia in vista di un incontro compiuto fra islam e modernità. Con fierezza e speranza, l’autore sottolinea il «dibattito effervescente su tali questioni» che si è appena aperto nel quadro della cosiddetta "primavera araba".
Lei sostiene che la «shari’a» è al contempo un corpus giuridico e ideologico. Cosa intende?«Mi riferisco al fatto che la
shari’a, fin quando ha coinciso storicamente con un dibattito, ha rappresentato uno strumento giuridico molto efficace. Di natura giurisprudenziale e fondata perlopiù su una casistica, ha lasciato in epoca medievale ampio spazio a un pluralismo di concezioni. Si può pensare al confronto fra punti di vista divergenti caro ad Averroè, che optava spesso per la soluzione più clemente ed umana fra quelle proposte dai diversi dottori».
L’esegesi coranica può ancora rappresentare una strada privilegiata da esplorare?«La via d’uscita dalla
shari’a monolitica difesa da alcuni è contenuta all’interno della stessa
shari’a. Si pensi in particolare alla tradizione di pensiero secondo cui il Corano è creato e non increato, già presente nel IX secolo presso la scuola dei mutaziliti. Secondo questa tesi, il Corano è stato ispirato in modo trascendente, ma è transitato storicamente attraverso l’opera umana. Dunque, non siamo di fronte alla parola inalterabile di Dio. Basterebbe riconsiderare questo punto per rendere tutto più aperto».
Può farci un altro esempio? «Si può pensare al grande filosofo persiano al-Farabi, del X secolo, che cercò di adattare l’ellenismo, l’aristotelismo e il neoplatonismo al credo musulmano. Commentando le
Leggi di Platone, al-Farabi cerca di mostrare che la legge deve essere perenne, essendo questa la sua forza, ma al contempo capace di adattarsi quando giunge un’evoluzione ineluttabile per gli esseri umani. Esiste dunque una tensione fra perennità è plasticità delle leggi. Si tratta di un’altra possibile via interna alla cultura musulmana per favorire l’accesso dell’islam alla modernità».
Queste tradizioni annoverano oggi eredi di primo piano?«Dall’Ottocento in poi, disponiamo di un vasto corpus che proprio in questi mesi sta agendo in modo impetuoso nel dibattito in corso sul rapporto fra religione e politica, e in particolare sul passaggio da un islam politico tentato dalla violenza a un nuovo islam politico strettamente democratico. In Tunisia ed Egitto, anche sui giornali, tanti capisaldi storici tornano in auge. La congiuntura è fortemente orientata in questa direzione, nonostante l’Occidente continui troppo spesso a non accorgersi di questi cambiamenti».
Lei dedica ampio spazio alla conferenza di Ratisbona di Benedetto XVI, sottolineando che essa ha rappresentato un’importante opportunità per l’islam…«Nell’intervento del Papa, a mio parere, la citazione bizantina di Manuele Paleologo che critica un passaggio del Corano proponeva un’utile decostruzione dello stesso passaggio. Qualcosa di simile era stato proposto storicamente dai neopitagorici musulmani. Si tratta d’importanti premesse per il lavoro critico che sembra schiudersi in questi mesi».
Il suo ultimo libro pubblicato in Francia è dedicato proprio alla "primavera" di Tunisi. Una primavera, finora, senza lo spettro terrorista…«Stiamo forse cominciando a raccogliere oggi i frutti di due secoli di lavoro da parte dei riformisti. È la prova che si può uscire dalla maledizione citata nel titolo del libro, che si riferisce alla teoria del filosofo Empedocle sull’alternanza fra sequenze di amore e di odio».
La morte di Osama Benladen ha appena rappresentato anch’essa una svolta?«No, nel senso che la svolta è avvenuta prima. Uccidendo Benladen, gli americani hanno eliminato un uomo che era già morto. Il 14 gennaio a Tunisi e l’11 febbraio al Cairo rappresentano la bara di Benladen».
Il destino dell’islam resterà legato alle possibilità di confronto lungo l’orizzonte mediterraneo?«Da quando l’islam è nato, il Mediterraneo vive una forte tensione fra integrazione e rifiuto. Credo che quest’oscillazione proseguirà. L’urto Occidente-Oriente si esprimerà nel Mediterraneo attraverso l’islam. Ma credo che sapremo temperare ed attutire l’urto, perché ci orientiamo verso un superamento degli antagonismi storici. Occorrerà comunque farlo al di fuori della recente farsa chiamata Unione per il Mediterraneo».
Il suo saggio appena tradotto in Italia si chiude citando diversi poeti non solo arabi, fra cui Dante. Il futuro dell’islam ha pure bisogno di poesia?«Credo di sì, dato che la poesia è intimamente politica. La dimensione politica è onnipresente proprio nella Divina Commedia. Dante aveva fra l’altro teorizzato la politica del suo tempo, la cui problematica assomiglia curiosamente a quella dell’islam contemporaneo. Scrivendo la
Monarchia, tentò proprio di riflettere sulla tensione terribile all’origine della guerra civile fra guelfi e ghibellini, sostenendo la necessaria distanza fra sfera papale ed imperiale».