Esiste un altro islam. Poco conosciuto, a tratti persino misterioso. Tradizionalmente discriminato dal mondo musulmano maggioritario sunnita, oggi apertamente nel mirino dei fondamenta-listi sanguinari del Daesh e dei loro “cugini”, in Medio Oriente come nel subcontinente indiano. Si tratta dell’islam sciita, corrente religiosa che conta oltre duecento milioni di fedeli in tutto il mondo: dall’Iran – dov’è religione di Stato – allo Yemen, dall’Azerbaigian al Bahrain, dall’Iraq al Libano fino a India, Pakistan, Bangladesh. Degli sciiti il grande pubblico ha imparato a conoscere soprattutto le espressioni fanatiche di mullah totalitari e fazioni violentemente anti-israeliane, o tutt’al più il folklore cruento di rituali di lutto collettivi a base di lamenti e autoflagellazioni. Solo di recente abbiamo cominciato a percepirli anche come una minoranza perseguitata dai jihadisti sunniti. Fenomeni che tuttavia «occultano il fatto che lo sciismo è anche una delle più ricche tradizioni intellettuali e spirituali dell’islam; che la sua storia annovera migliaia di brillanti teologi, esegeti, filosofi, artisti, eruditi, giuristi, mistici e uomini di lettere; che il corpus degli scritti sciiti è uno dei più ricchi del mondo». Parola di Mohammad Ali Amir-Moezzi, docente di Esegesi e teologia dell’islam sciita all’Éecole pratique des Hautes Études della Sorbona, che nel suo
L’islam degli sciiti. Dalla saggezza mistica alla tentazione politica, in uscita per Edb (pagine 86, euro 7,00), rievoca l’origine dello scisma che lacerò il mondo musulmano al momento della successione al profeta Muhammad e ripercorre le tappe fondamentali dello sviluppo del pensiero sciita lungo i secoli. Uno studio particolarmente interessante, quello dell’intellettuale iraniano, in un momento in cui lo strappo settario all’interno del mondo musulmano conosce esiti più che mai sanguinosi e preoccupanti.
Professore, quali sono le specificità della corrente islamica sciita rispetto a quella sunnita? «In origine, la frattura nella comunità dei seguaci di Muhammad si consumò perché una parte di loro giudicò illegittima la scelta di Abu Bakr per la successione al profeta, ritenendo che questa spettasse di diritto al genero e cugino Ali. Questo gruppo – “Shi ’atu ’Ali” , , “la fazione di Ali”, da cui “sciiti” –, restò fedele ai successivi discendenti della famiglia del profeta, gli imam. Una parola che, nel mondo sciita, non rappresenta semplicemente gli esperti della religione bensì guide spirituali veneratissime. La specificità di questa corrente, nella sostanza, sta proprio nella profonda devozione agli imam, che dà forma alla teologia – lo sciismo è la religione della guida spirituale – così come alle espressioni di fede popolare, con tutte le forme di venerazione a Muhammad, a Fatima e Ali, ai loro figli Hasan e Husayn e a tutti i discendenti».
Si tratta di un filo conduttore che unisce tutti gli sciiti nel mondo?«Esistono tre grandi branche di sciiti: i duodecimani, gli zayditi, presenti nello Yemen, e gli ismailiti, diffusi soprattutto in India. Tutte condividono la devozione alla figura dell’imam, anche se ci sono delle differenze. Gli iraniani, ad esempio, identificano l’immagine dell’“imam nascosto” nella Guida suprema, mentre gli ismailiti la riconoscono nell’Aga Khan».
Qual è l’importanza della tradizione sciita nella storia del pensiero musulmano? «È molto grande. Nel primo secolo dell’islam la questione della successione fu centrale, determinò fazioni avverse e relative correnti di pensiero. Questa disputa fu al centro della costituzione della dottrina, e molte dottrine sunnite attuali furono in origine una reazione a movimenti sciiti considerati eretici. Inoltre, gli sciiti hanno sempre coltivato l’ermeneutica, l’esegesi: per loro il Corano ha bisogno di essere interpretato, riconoscono vari livelli di senso, letture differenti dello stesso testo. Non a caso il mondo sciita ha visto prosperare la filosofia e la teologia: i grandi filosofi Farabi e Miskawayh erano sciiti, nell’era Safavide proliferarono famosi pensatori, molti filosofi ismaeliti sono meno noti ma importantissimi, lo stesso Avicenna si formò in un contesto sciita. E anche ai giorni nostri, nonostante tutti i limiti che conosciamo, in Iran la filosofia è materia di baccalaureato».
Il pensiero sciita ebbe un ruolo anche nella diffusione delle scienze in Occidente? «Sì, indirettamente: le opere di molti di questi sapienti furono tradotte in latino. Non solo il pensiero sciita contribuì alla formazione della filosofia nel mondo islamico, ma gli intellettuali sunniti stessi sono influenzati dalle dottrine sciite».
Lo sciismo ha una lunga tradizione di studi critici sui testi sacri: il mondo sciita può essere oggi un attore della modernizzazione del pensiero islamico in generale? «Potrebbe essere un attore di riforma. Anche se può sembrare paradossale, in Iran, nonostante la strumentalizzazione politica della religione, o forse proprio in reazione ad essa, è in atto una vera riflessione sull’islam. Esiste una vivace vita intellettuale (ciò che non si verifica in altri Paesi islamici, soprattutto arabi) con numerose figure di riformatori».
Intanto però assistiamo a un pericoloso scontro tra mondo sunnita e sciita: è preoccupato? «Certo, si tratta di un fenomeno inquietante. In realtà, la religione viene strumentalizzata per altri fini, ma la popolazione si sente molto coinvolta perché in questi scontri si fa riferimento a credenze importantissime. La gente viene manipolata e ciò crea una violenza estrema, che può infiammare regioni intere».
Esistono esperimenti interessanti di “ecumenismo” tra le diverse correnti islamiche? «Sì, ne abbiamo avuti alcuni tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, ma con risultati relativi, perché sul piano religioso esistono elementi inconciliabili. Nonostante ciò, generalmente le comunità sono arrivate a un equilibrio pragmatico, riuscendo a convivere in pace. I problemi si verificano quando intervengono appunto manipolazioni da parte di regimi corrotti, o provocazioni internazionali. Penso che un dialogo duraturo possa nascere non dal basso, perché le masse di fedeli non sarebbero preparate, bensì da una classe intellettuale che elabori un’adeguata riflessione teorica e politica».
Lei sostiene che il mondo sciita, rispetto ai sunniti, è più aperto al dialogo con le altre religioni: perché? «Nello sciismo l’aspetto spirituale e intellettuale sono molto importanti, e tra le élite la tradizione razionale – e quindi anche dialettica – è rimasta molto viva. Con i religiosi sciiti, anche quelli più rigidi, è possibile mettersi attorno a un tavolo e dialogare, cosa impossibile con i fondamentalisti sunniti. E i fatti lo dimostrano».