Mostra a Venezia. Isgrò, quando cancellare le parole è un'arte
La mostra dedicata a Emilio Isgrò a cura della Fondazione Cini all’Isola di San Giorgio a Venezia
Aveva ventisette anni ed era il 1964. All’epoca Emilio Isgrò lavorava al “Gazzettino di Venezia” dove, come si dice in gergo giornalistico, passava i pezzi. Correggeva, sistemava, tagliava, cancellava. E proprio la cancellatura cominciò a piacergli visivamente. La strisciata di nero che nascondeva allo sguardo aveva il valore pittorico di una piccola pennellata. È così che cominciò a utilizzare quella che in breve tempo sarebbe diventata la sua cifra stilistica nota in tutto il mondo. Da allora non ha più smesso, ha cancellato di tutto e oggi, a 82 anni, la sua avventura creativa è ampiamente raccontata nella antologica che proprio qui a Venezia, dove tutto cominciò, è ospitata alla Fondazione Cini all’Isola di San Giorgio a cura di Germano Celant (fino al 24 novembre, catalogo Treccani). A unificare il percorso espositivo è stata studiata una «ambientazione architettonica inglobante e avvolgente» (che rasenta pericolosamente l’allestimento fieristico, non nel senso di fiera d’arte, ma proprio di fiera campionaria) sulle cui pareti scorre per 1.500 metri quadrati una monumentale operazione di cancellatura sul testo di Moby Dick di Herman Melville, che contiene tutte le altre e in proposito lo stesso Isgrò precisa che «chi entra alla mostra si lascerà accompagnare nel ventre della balena, ovvero il ventre del linguaggio mediatico che copre con il rumore il proprio reale e disperante silenzio». Come Christo, l’artista che impacchettando e nascondendo i monumenti in effetti li sottolinea, così la cancellatura esalta la forza della parola, mai tanto eloquente come nel momento in cui è costretta al silenzio.
La parola scritta sembra premere contro la cancellatura per trasformarsi in idea o immagine. Cancellare, in fondo, significa scegliere, fare tesoro di ciò che resta, esaltarlo e nello stesso tempo affermare un nuovo significato da attribuire alle cose. Nel mondo di Isgrò niente è dato per scontato. Cancellando ci porta a sempre nuovi interrogativi. Perché come scriveva l’artista nel 1988 «non è nella relazione o nella interdizione il potere della cancellatura, quanto, piuttosto, nella sua capacità di aprire le porte del linguaggio fingendo di chiuderle», così come precisa a sua volta Ce- lant, la cancellatura «è un gesto quasi rivelatorio di una dialettica tra sopra e sotto, fuori e dentro, parola e immagine». Poeta tra i più rappresentativi della poesia visiva negli anni Sessanta, romanziere, drammaturgo (sua l’ Orestea di Gibellina, andata in scena nel 1983), Isgrò ha passato la vita a misurarsi con il linguaggio, dotato di una devozione e un’ironia inattaccabili, cancellando le pagine della Divina Ccommedia, dei codici ottomani e della Costituzione italiana passando per quelle dell’ Enciclopedia Treccani e del Don Chisciotte, ma anche intervenendo sul Manifesto del Futurismo e le città delle cartine geografiche e dei mappamondi. L’alfabeto pittorico dell’artista ha compreso anche l’azione concettuale, come capita, per esempio, con l’affermazione del 6 febbraio 1971: «Oggi dichiaro di non essere Emilio Isgrò» e quella del 2008 che rovescia questa negazione affermando al contrario di essere Emilio Isgrò, oppure con i quadri “vuoti” nei quali l’opera è la didascalia di un’immagine che non vediamo, come in Jacqueline, che evoca l’omicidio Kennedy, o nel celebre rettangolo monocromo Il presidente Mao Tse-Tung (a sinistra) dorme nel rosso vestito di rosso.
A metà degli anni Settanta, sciami di api e colonne di formiche, una metafora della fecondità degli scambi e degli innesti di culture, contribuiscono con i loro corpi ad altre cancellature su libri e immagini perché «vita e cultura, natura e sapere debbono coincidere». Piccoli insetti che addensandosi o dilatandosi, vagano su oggetti e tele e proprio come cancellature, elidono o all’opposto evidenziano le immagini sottostanti provocando, come ne La Giara di Shangai , una ridefinizione di senso. La mostra si avvale della presenza di lavori provenienti da importanti collezioni pubbliche e private, nazionali e internazionali, tra cui Il Cristo cancellatore, 1968, installazione composta da 38 volumi cancellati, proveniente dal Pompidou di Parigi; la Carta geografica del 1970 proveniente dal Mart di Rovereto; Storico del 1972 prestato dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma; l’enorme carta geografica cancellata Weltanschauung del 2007, lunga nove metri, dal Pecci di Prato; il Corpus Iustinianeum del 2018, cancellato in sei volumi.