Libro. La vita di Marco, campione paralimpico e chirurgo in carrozzina
Marco Dolfin, argento agli Europei di Dublino nel 2018
Guardi la foto di Marco Dolfin, quella scattata il giorno in cui, di ritorno dalle Paralimpiadi di Rio 2016, va al Quirinale ad incontrare il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e pensi: ma quella è un’anima divisa in due. La grande anima di Marco che per metà si veste da atleta, con la tuta della Nazionale paralimpica, nell’altra invece indossa il camice verde del chirurgo ortopedico in forza all’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino, la sua città. Quel posto, uno dei suoi tanti sogni realizzati: l’assunzione dopo undici anni spesi tra la facoltà di Medicina e la specializzazione in Chirurgia ortopedica.
Tutto accadde nel 2011: «Un anno particolare per me, come se qualche sceneggiatore cinematografico si fosse divertito a cercare più colpi di scena possibili per la mia vita», confessa Marco a suo fratello minore Alberto che, da giornalista sportivo «freelance», ha riscritto quella “sceneggiatura” da working progress esistenziale nel libro biografia Iron Mark. Le corsie di Marco Dolfin: chirurgo e nuotatore (Bradipolibri. Pagine 127. Euro 15,00). Dalle corsie di un ospedale, in cui era appena entrato, a quelle di una piscina il tuffo è stato breve. Ma andiamo con ordine, riavvolgiamo il nastro del film di Marco e partiamo da quel drammatico 11 ottobre 2011.
Marco Dolfin alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro - Mauro Ujett
Una donna alla guida di un’automobile si spaventa alla vista di un ragno calatosi sul cruscotto, perde il controllo del mezzo e va a sbattere contro la moto guidata dall’allora trentenne Marco. Un ragazzo felicemente sposato con Samanta, appena tornato dal viaggio di nozze, che sta andando a lavorare come medico al pronto soccorso e si ritrova ricoverato d’urgenza proprio nel suo reparto di chirurgia ortopedica.
Codice rosso, dodici ore di intervento per salvare il salvabile, poi il verdetto implacabile: danni spinali permanenti. Addio sogni di gloria, anche sportivi. L’atletico Marco, portiere per vocazione famigliare («nostro nonno materno, Pietro Miglio, era il portiere del Torino Fiat e dell’Ambrosiana Inter di Arpad Weisz, l’allenatore ebreo morto ad Auschwitz», spiegano i fratelli Dolfin) nella squadra di hit ball dei Red Devils non avrebbe più giocato con i suoi compagni e ad attenderlo dietro l’angolo c’era la prospettiva, allora triste e solitaria, della carrozzina.
Giornate cupe d’angoscia, di sogni sfumati e speranze nel futuro tradite clamorosamente. «Poi però ho capito che quell’incidente mi stava dando una nuova opportunità, quella di riaprire l’armadietto dello spogliatoio e ricominciare con lo sport che per me non è mai stata una ossessione, e ora poteva diventare una bella rivincita da cogliere al volo».
Dopo i mesi di dura riabilitazione fisica e psicologica, l’incontro illuminante con Patrizia Saccà. Una pioniera del movimento paralimpico azzurro: bronzo nel tennistavolo a Barcellona ’92, conosciuta proprio lì, all’Unità Spinale. Ma racchetta da ping-pong alla mano non è il solito Marco caparbio e vincente in quasi tutte le discipline. «Continuavo a perdere contro persone con disabilità ben peggiori della mia – ricorda – e così ho pensato bene di cambiare i miei piani dedicandomi ad altro».
Dal bagno d’umiltà del perdente a quello in vasca. Con l’istruttrice torinese Valentina Pico comincia a fare le prime bracciate in piscina per essere già pronto nell’estate del 2013 a gareggiare nei campionati italiani di nuoto paralimpico. Alla piscina Scandone di Napoli contro i reduci delle Paralimpiadi di Londra 2012, Marco migliora il suo tempo personale, non conquista il podio ma tutta l’attenzione del suo futuro allenatore, Alessandro Pezzani che ricorda: «Vedo un ragazzo accompagnato soltanto dalla moglie, un viso nuovo nel nostro mondo e la sua nuotata stile libero, con una grande frequenza di bracciata mi incuriosisce subito».
Con Pezzani comincia a lavorare alla piscina milanese della pluripremiata società sportiva Briantea84 e durante la settimana Marco si allena anche alla Sisport di Torino con il preziosissimo Nunzio Di Stefano «che mi lascia subito una corsia personalizzata».
Sudore e sacrifici fatti per un obiettivo ben preciso: arrivare alle Paralimpiadi di Rio 2016. Ma prima, un altro anno speciale per lui era stato il 2014: Marco diventa papà dei gemellini Lorenzo e Mattia. Poi a Rio si piazza al quarto posto. Una medaglia di legno che comunque si merita l’encomio del Presidente Mattarella che ha saputo la storia del “chirurgo-nuotatore”.
Perché nel frattempo nel film di Marco è prevista anche la scena del rientro dalla corsia della piscina a quella della chirurgia ortopedica. «Quel sogno di medico non poteva mica durare appena quindici giorni, il tempo della mia assunzione. Ma per tornare ad aggiustare la vita degli altri, dato che la mia non potevo più aggiustarla, mi occorreva una carrozzina speciale con cui operare al meglio».
La soluzione arriva da Rieti dove vive e opera Paolo Anibaldi, medico chirurgo colpito da angioma midollare nel 1983, tornato al suo posto in sala operatoria, ma fino al ’96 lo faceva da seduto, poi ha escogitato una “carrozzina verticalizzata”.
Un assist importante per Marco che da Paolo ha appreso anche una lezione fondamentale: «La disabilità rende certamente la vita più faticosa, ma non deve impedirci di realizzare i nostri sogni». Il sogno di operare in piena autonomia a colpi di joystick lo realizza grazie alle Officine Ortopediche Maria Adelaide che per lui hanno realizzato una carrozzina verticalizzabile ad hoc. Un trionfo professionale quello del dottor Marco Dolfin che è coinciso con le medaglie nel nuoto: bronzo ai campionati Europei di Funchal 2016 e argento a quelli di Dublino nel 2018, specialità 100 rana. Successi salutati sempre dall’abbraccio caldo di Samanta e dei due gemelli.
Marco Dolfin chirurgo mentre opera, aiutato da una speciale carrozzina - Cortesia Dolfin
E a un loro compagno di scuola che chiedeva «come ha fatto vostro padre a vincere, che non muove le gambe?», Lorenzo e Mattia hanno risposto da autentici figli d’arte: «Il nostro papà nuota a rana, le gambe non servono». La bocca della verità che per amore ha detto una bugia inconsapevole, le gambe a dire il vero fanno la differenza nello stile rana. E anche Marco continua a farla al reparto dove la sua stoica resistenza e la testa dura come l’acciaio ne fanno, per i colleghi, il dottor “ThyssenKrupp”. Nel mondo paralimpico è diventato “Iron Mark”. Dopo che il Covid l’ha costretto a saltare l’appuntamento con le Paralimpiadi di Tokyo 2020, Marco è uscito dalla piscina per darsi al Paratriathlon e all’handbike. E in quest’ultima disciplina “Iron Mark” conta di coronare il prossimo grande sogno: le Paralimpiadi di Parigi 2024.
A guidarlo è la grande fiducia in se stesso, ma anche una fede che, dopo aver pesantemente vacillato nei giorni del doloroso abbandono, sta piano piano ritrovando con Samanta, e grazie ai loro figli. «Dio? Diciamo che è un po’ come un vecchio amico con cui ho litigato», è la risposta che diede ai ragazzi della scuola San Giuseppe di Rivoli al ritorno dalle Paralimpiadi di Rio. Cinque anni dopo, quel messaggio Marco continua a lanciarlo ancora: «Con Alberto alle presentazioni del libro dico sempre che il mio esempio non è una scienza esatta, ma vorrei tanto che fosse utile agli altri».
È l’esempio dello sportivo indomito e del medico che consiglia il collega urologo indiano di procurarsi una carrozzina adeguata alla sua specializzazione. Intanto, all’orizzonte si prospettano altre anime divise in due come “Iron Mark”. Si tratta di Elisabetta Mijno, classe 1986, torinese anche lei di Moncalieri, rimasta paraplegica dopo un incidente stradale. Elisabetta, che fa la dottoressa al Cto di Torino, è una dei 69 medagliati azzurri alle ultime Paralimpiadi di Tokyo. Dolfin e Mijno sono due dei migliori rappresentanti di quello che per il presidente del Comitato paralimpico italiano Luca Pancalli è il «Paese degli uomini e donne che non si arrendono al destino».