Il vecchio Feuerbach non se ne abbia a male, ma l’uomo è molto più di ciò che mangia. A ricordarlo è Francesco Botturi, ordinario di Filosofia morale alla Cattolica di Milano. Sarà lui, questa mattina, a tracciare le coordinate concettuali per il "senso" del "Convivio". «L’obiettivo – spiega – è di valorizzare questo concetto, riconoscendo in esso l’elemento più espressivo dell’alimentazione intesa come valore umano».
Non solo nutrizione, dunque.«Nel momento in cui si affronta un tema così delicato, mi pare importante non perdere di vista l’intero che le varie parti esprimono. È una questione di senso, che ci invita a guardare al convivio come a un’idea estremamente complessa, che va ben al di là della mera assunzione di cibo e appartiene piuttosto al dominio degli universali antropologici».
Quali fattori entrano in gioco?«Il lavoro, anzitutto, che è mediazione irrinunciabile rispetto al bisogno primario di cibarsi. Questo costituisce una prima forma di relazione, che introduce un’asse verticale (di senso, appunto) rispetto a quella orizzontale della necessità di mangiare. Nel convivio si sperimenta la dinamica del ricevere e del dare, di cui ci rendiamo conto con pienezza quando viene al mondo un bambino. Nutrirlo non significa semplicemente allevarlo. Al contrario, è un gesto altamente simbolico, che chiama in causa la nostra capacità di accoglienza. E infatti, non appena instaura a sua volta una relazione con gli altri, il bambino tende a imboccare gli adulti, a condividere con loro il cibo che ha ricevuto».
Ma questa consapevolezza non è mai stata messa in discussione?«Purtroppo sì. La lunga linea che dal Simposio di Platone si è snodata attraverso la cultura romana fino al contesto ebraico-cristiano, presupponeva un legame strettissimo con l’esperienza del sacro. Era un’intuizione che ritroviamo per esempio nella commedia ellenistica che sarà rappresentata nell’ambito del convegno, e cioè il Misantropo di Menandro. Lì la figura del cuoco rappresenta il legame con il sacrificio e attribuisce al convivio le caratteristiche della festa sacra. Anche prima della Messa, che è banchetto eucaristico, l’uomo ha sempre saputo che partecipare al simposio significa ricevere un dono da Dio».
E poi che cosa è successo?«Direi che è venuta meno la distinzione fra disponibilità tecnica del cibo e indisponibilità simbolica del convivio. Una crisi che va di pari passo con la crisi complessiva dell’Occidente e che induce a sottovalutare il concetto di ospitalità. Penso, in concreto, alle catene industriali che oggi detengono il monopolio dell’alimentazione, in modo del tutto coerente rispetto allo stile di vita frettoloso e compresso ormai impostosi nella nostra quotidianità. Mangiare di corsa non piace a nessuno, ma tutti ci adattiamo».
L’alternativa?«Conservare almeno lo spazio del pranzo domenicale, impedire che sia intaccato anche il tempo della festa. Dev’essere chiaro che alcuni momenti vanno preservati dalla logica del fast food e ricondotti invece alla convivialità tipica del banchetto».
È per questo che, dalla televisione alle librerie, i grandi chef riscuotono tanto successo?«Non sono un esperto di questioni mediatiche, ma la mia impressione è che un fenomeno come questo abbia a che vedere con la tendenza all’individualismo narcisista da una parte e con la spettacolarizzazione forzata dall’altra. Ma il vero banchetto non è uno show, è semmai Il pranzo di Babette, il magnifico racconto in cui Karen Blixen ha dimostrato come il cibo possa ricomporre memorie, intessere relazioni e condurre, da ultimo, al perdono».