Intervista. L'Europa dei mille tesori (razziati)
I sotterranei del monastero di Uzkoe nel 1990 (da “Stolen Treauser” di Konstantin Akinsha e Grigory Kozlov, Weidenfled & Nicolson, 1995)
Si intitola “Italia mia” la XIII edizione di èStoria, il festival internazionale della cultura che da domani al 28 maggio porterà a Gorizia oltre 200 relatori, tra storici, giornalisti, artisti, studiosi e testimoni. Un titolo quest’anno ispirato alla canzone politica del Petrarca, per fare da cornice a 150 eventi culturali a 360 gradi, tra passato e attualità. Si va dai dibattiti sulle politiche europee e gli equilibri mondiali di oggi, ai 25 anni dalla morte di Giovanni Falcone a Capaci (1992), agli eventi che segnarono il 1917, anno della rivoluzione russa ma anche della rotta di Caporetto nella I guerra mondia-le, ad altri importanti anniversari, come il Trattato di Pace che nel 1947 assegnò Istria, Fiume e Dalmazia alla Jugoslavia e causò l’esodo dei trecentomila giuliano-dalmati. Ogni anno il festival richiama decine di migliaia di visitatori, e la città giuliana ospita in contemporanea gli eventi e le mostre in sale, teatri e tensostrutture distribuite nei parchi. A Gorizia, città oggi divisa in due dal confine con la Slovenia, è tuttora vivo il ricordo delle battaglie che la insanguinarono nella I guerra mondiale, ma anche dei rastrellamenti di Tito nel 1945, e ciò ne fa la sede particolarmente adatta per un festival della storia. Tra gli ospiti, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, Alberto Angela, Alessandro Barbero, Raoul Pupo, Elena De Curtis (figlia di Totò, scomparso 50 anni fa), Carla Fracci, Bernard Guetta, Marco Revelli, Igiaba Scego, Fulvio Salimbeni, Agostino Giovagnoli... Sabato alle 16 Alessandro Marzo Magno racconterà con Fabio Isman la diaspora del nostro patrimonio artistico. (L.B.)
Se l’eccelso scultore Antonio Canova nel 1815 si vide affibbiare dai parigini lo spocchioso epiteto di emballeur, imballatore, è perché seppe fare ciò per cui papa Pio VII lo aveva spedito in Francia: riportare a Roma il patrimonio d’arte rubato diciotto anni prima da Napoleone, il grande razziatore. L’artista-ambasciatore doveva compiere un miracolo, si trattava di staccare dalle pareti del Louvre – con tante scuse – i capolavori più famosi al mondo... Fatto sta che Napoleone ha avuto la sua Waterloo e col Trattato di Vienna la parola d’ordine è restaurare: l’Europa deve tornare com’era prima dello tsunami Bonaparte e anche le opere razziate rientreranno al loro posto, con buona pace della grandeur. Se però Prussia e Austria per riprendersi il maltolto mandano al Louvre le truppe in armi, le potenze minori possono usare solo l’astuzia, eccellenza tutta italica. «Tornano così a casa opere immense come il gruppo marmoreo del Laocoonte o laTrasfigurazione di Raffaello. Ma nonostante gli sforzi del Canova e di altri eroi dimenticati, che per recuperare il bottino rischiarono la vita, ancora oggi le conseguenze dei saccheggi sono immani – afferma Alessandro Marzo Magno, autore di un gustoso saggio sull’argomento –: metà dei capolavori asportati da Bonaparte non sono mai tornati ». Ricco di aneddoti e curiosità, il suo libro Missione grande bellezza (sottotitolo “Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler”; Garzanti, pagine 320, euro 20,00) approda sabato a èStoria, la tre giorni goriziana quest’anno dedicata al (petrarchesco) tema “Italia mia”.
Caduto il tiranno, il bottino avrà fatto gola a tutte le potenze: chissà che baruffe...
«Ma gli altri non avevano un Canova. Addirittura il commissario inviato dagli austriaci, il pittore viennese Giuseppe Rosa, scambiò per grafia cinese il Codice Atlantico di Leonardo, scritto da destra e sinistra, e lo scartò. Fu Canova ad avvertirlo: solo grazie a lui tornò nell’asburgica Milano, all’Ambrosiana».
I francesi come la presero?
«La folla era in tumulto mentre i quattro cavalli venivano calati dall’Arco di Trionfo del Carrousel per essere riportati a Venezia sulla facciata di San Marco, da dove erano stati predati. Pure i prussiani si ripresero la loro quadriga, presa dalla Porta di Brandeburgo a Berlino».
Dopo Napoleone, fu la volta di Hitler.
«Il saccheggio nazista avviene in due fasi: prima dell’8 settembre 1943 il Führer e Hermann Göring acquistano le opere, soprattutto sculture classiche e arte rinascimentale, facendo la felicità degli antiquari di tutta Italia. Tutto a posto, dunque? No, perché erano patrimoni invendibili e inesportabili, che il regime fascista rendeva magicamente alienabili per compiacere l’alleato. Al danno si aggiunge la beffa, poiché l’Italia si accollava pure le tasse di esportazione... Nel 1938 Hitler vuole una delle statue più famose al mondo, il Discobolo di Mirone, che prende il volo da Palazzo Lancellotti a Roma e arriva a Jena come pagamento in cambio di un telescopio Zeiss destinato all’osservatorio romano di Monte Porzio Catone...».
Come andò a finire?
«Che il telescopio, causa eventi bellici, non arrivò mai a Roma, e nel 1944 i tedeschi si portarono via pure le cupole dell’Osservatorio. Nel 1945 Jena finisce nella Germania Est e il telescopio nelle mani dei sovietici, che lo installano a Leningrado: ancora oggi scruta i cieli di San Pietroburgo ed è chiamato “Telescopio Mussolini”. Nel ’45 gli americani organizzavano i Collecting Point, centri di restituzione dei beni artistici ai legittimi proprietari; l’Urss invece si appropriava dei tesori già requisiti dai nazisti: due milioni e 600seicentomila oggetti finirono nei sotterranei dei musei russi, dei quali un milione e mezzo furono restituiti nel 1954 alla Ddr. Ad esempio il celeberrimo Altare di Pergamo quell’anno tornò al Museo di Berlino, dove tuttora si trova».
Con l’8 settembre l’Italia rompe l’alleanza e inizia la seconda razzia.
«Ma questa volta Hitler non acquista, prende. Letteralmente svuota i depositi degli Uffizi o di Palazzo Pitti... Poi a fine guerra dalla Germania finirà tutto in Russia e non sappiamo quante e quali opere sono tuttora nascoste là, perché l’Italia in questi settant’anni non se n’è quasi interessata. I tedeschi nel 2008 hanno chiuso trattative con Putin per andare a cercare le loro opere, noi non le abcheggiati biamo mai aperte. Al Museo Puškin ad esempio c’è una stanza segreta che custodisce 190 quadri italiani di incalcolabile valore, mentre settemila libri della comunità ebraica di Roma presumibilmente giacciono nei sotterranei di un monastero fuori Mosca, a Uzkoe, insieme a due milioni e mezzo di altri volumi stipati».
C’è una stima totale dei beni perduti?
«Sulla refurtiva di Napoleone ci abbiamo messo una pietra sopra. La perdita più clamorosa sono le Nozze di Cana del Veronese, dieci metri per sette, il quadro più grande del Louvre, ma ha la sfortuna di essere appeso di fronte alla Gioconda, così in pochi si girano a guardarlo. Era stato rubato nel monastero benedettino dell’isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia. Invece secondo i carabinieri della Tutela patrimonio culturale, unico corpo di polizia del mondo specializzato in recupero di opere d’arte, sono 2.487 le opere saccheggiate dai nazisti ancora fuori Italia: tra queste la Testa di fauno scolpita da Michelangelo, requisita nel 1944 a Firenze e oggi desaparecida, a Mosca o a San Pietroburgo... Francia e Russia sono piene di nostri capolavori».
Oltre al Canova, dobbiamo molto a Rodolfo Siviero, agente segreto dal passato oscuro.
«Dedicò tutta la vita a ritrovare i beni sac- dai nazisti, dal 1943 fino alla morte, nel 1983. Era un guascone, ma in modo rocambolesco restituì all’Italia tremila capolavori. Già che c’era, strappandoli anche alla mafia: nel 1962 dal municipio di Castelvetrano ( Trapani) fu rubato il meraviglioso Efebo di Selinunte, che il sindaco usava... come portacappello. Troppo famoso per essere smerciato, fu contrabbandato negli Usa, ma alla fine tornò in Sicilia dove la mafia chiese un riscatto. Siviero inscenò una finta trattativa e si recò alla consegna, che finì in una sparatoria senza vittime, e l’Efebo approdò a Roma».
Possiamo ancora aspettarci sorprese?
«Enormi e tuttora in evoluzione. In Istria durante la Seconda guerra gli italiani trasferirono al riparo le opere d’arte, poi i confini cambiarono e l’Istria si trovò in Jugoslavia, ma 57 casse di oggetti preziosi sono rimaste nei sotterranei della Biblioteca Marciana a Venezia, tuttora chiuse con dentro gli Statuti quattrocenteschi in pergamena della città di Capodistria o la divisa di Nazario Sauro. E quattro preziosissime tavole del Carpaccio provenienti da Pirano, rappresentanti i profeti Geremia e Zaccaria, la Salita al Calvario e Cristo alla colonna, da decenni sono “secretate” all’Accademia di Venezia, nemmeno gli studiosi le possono vedere. A Pirano o a Venezia, purché tornino a vedere la luce: tesori clamorosi che nel buio di bunker e magazzini muoiono di inutilità».