Lo studio. Internet e la sindrome del pesce rosso (la memoria di 8 secondi)
Un ragazzo con il telefonino
Che lo smartphone non fosse del tutto neutrale, un semplice strumento in attesa delle nostre istruzioni, lo avevamo sospettato. Forse il dubbio era sorto quando ci eravamo ritrovati a scorrere compulsivamente Instagram o Facebook senza renderci conto del tempo che passava, o quando ci eravamo lasciati trascinare in una sterile discussione in quel gruppo whatsapp di genitori. E potrebbero essere molti altri gli esempi di situazioni in cui risulta chiaro come il controllo della situazione ci stia sfuggendo di mano.
La semplice presenza di uno strumento tecnologico potente e complesso come uno smartphone facilita certi comportamenti e ne rende più difficili altri. Quindi il mezzo è tutt’altro che neutrale. Ci condiziona. E non poco. Del resto, è stato così per ogni altra innovazione entrata a far parte della nostra quotidianità: il personal computer e Internet innanzitutto.
«Cambia gli strumenti che la gente usa e cambierai la civiltà», diceva Stewart Brand, uno dei pionieri della rivoluzione digitale.
Oggi il cambiamento è sotto gli occhi di tutti. E accanto agli innumerevoli aspetti positivi emergono con una certa evidenza anche le ombre, gli elementi critici. Uno in particolare: l’impatto che lo smartphone e i social media hanno sulla nostra attenzione, vera e propria merce di scambio intorno alla quale gira l’economia della Rete. Agganciarla e governarla in modo sempre più preciso è la vera sfida oggi per i servizi online.
Il dato critico è l’impatto che telefonini e social media hanno sulla nostra attenzione:
Ne parla, con precisione e un tono a tratti ansiogeno e apocalittico, il documentario disponibile su Netflix The Social Dilemma, realizzato grazie alla collaborazione degli studiosi dello Humane Tech Laboratory, che negli Stati Uniti da qualche anno propone riflessioni fuori dal coro sul rapporto fra uomo e tecnologia e sulle derive cui stiamo assistendo.
Il problema, come sintetizza nel film il capo dello Humane Tech Tristan Harris, un passato di ingegnere a Google, è che la tecnologia oggi è programmata per sfruttare le nostre debolezze. Per esempio quella di non saper resistere alle gratificazioni costituite dai like a ciò che postiamo, che ci porta a controllarli di continuo, come un giocatore d’azzardo con una slot machine. Il rapporto con lo smartphone fa in buona parte appello alle nostre dinamiche più profonde e istintive, quelle che nel corso dell’evoluzione ci hanno consentito la sopravvivenza.
Il pallino rosso delle notifiche sullo schermo è un segnale che non può essere trascurato. Stimola direttamente una specifica regione del cervello, l’amigdala, che è una sorta di sistema di allarme fisiologico: «È come quando hai un figlio piccolo che dorme nella sua cameretta e tu sei in un’altra stanza della casa. Il tuo orecchio è costantemente teso a sentire se si sveglia, se arriva un rumore, se si muove. La stessa cosa ti succede con il tuo cellulare. Suonerà? Arriverà un messaggio? Qualcuno mi chiamerà?», lo spiega la psicologa Ayelet Gneezy, in 8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione (Il Saggiatore, pagine 242, euro 19), ricco e documentato libro– inchiesta di Lisa Iotti, inviata del programma di Raitre 'Presa Diretta', che mette in chiaro quale sia la posta in gioco in questa lotta per corrodere l’attenzione di noi utenti.
L’autrice, che aveva trattato l’argomento nella puntata “Iperconnessi” in onda nell’ottobre 2018, conduce i lettori in un appassionante viaggio nei principali laboratori negli Stati Uniti e in Europa, dove si studia il funzionamento del cervello, intrecciando la puntuale ricognizione delle scoperte più avanzate delle neuroscienze con il racconto di aneddoti su quanto radicata sia l’“ossessione” da smartphone e la difficoltà a farne un uso più equilibrato. Faccenda che ci riguarda tutti. Il titolo allude ai risultati di una ricerca di Microsoft del 2015 secondo cui la soglia della nostra capacità di concentrazione si sarebbe abbassata vertiginosamente negli ultimi anni, fino a toccare gli 8 secondi, meno della memoria di un pesce rosso.
Una provocazione, forse. Ma un dato è certo: secondo Gloria Mark, ricercatrice dell’Università della California a Irvine, dai tre minuti di dieci anni fa siamo passati ai quaranta secondi di oggi, come tempo massimo oltre il quale si decide di cambiare attività. L’attenzione è un bene sempre più raro e prezioso. Cosa ci perdiamo a lasciare che si frammenti nell’infinito vagare in Rete sommersi da informazioni in gran parte irrilevanti? Non si tratta soltanto di una perdita di tempo.
Questo comportamento sta già alterando i meccanismi del nostro cervello, trasformandoci in individui più superficiali, meno capaci di argomentare e di approfondire. E, soprattutto, di decidere ciò che è rilevante e ciò che invece non lo è. Allora, suggerisce Lisa Iotti al termine del suo percorso, cominciamo con il fermarci un attimo prima di fare tutto quello che ci richiedono i nostri dispositivi, per «disinnescare il pilota automatico con cui reagiamo invece di agire».
Riprendiamoci le pause, i periodi d’inattività, tutto ciò che è necessario per recuperare il controllo su come e cosa pensare, quella consapevolezza fondamentale di cui parlava lo scrittore David Foster Wallace, «che permette di scegliere a cosa prestare attenzione e come attribuire un significato all’esperienza».