Agorà

Intervista. Ingrid Betancourt: il perdono sei anni dopo il sequestro

Francois-Xavier Maigre domenica 30 novembre 2014
Sono passati sei anni da quando l’ex candidata alla presidenza colombiana Ingrid Betancourt è tornata libera, dopo un interminabile sequestro nella giungla equatoriale fra il febbraio 2002 e il luglio 2008, nelle mani dei guerriglieri delle Farc. La liberazione era stata vissuta come una festa nazionale soprattutto in Francia, patria d’adozione della Betancourt fin dagli anni dell’università. In quest’intervista, l’ex esponente ambientalista conferma di aver voltato pagina rispetto all’impegno politico. Oggi, fra la Francia e Oxford, ha abbracciato una vita fatta di emozioni forti, ma più intime, fra l’attenzione agli affetti familiari, l’impegno letterario che l’ha appena portata a pubblicare il romanzo La ligne bleue (Gallimard), ambientato nell’Argentina degli anni Settanta, e l’approfondimento, anche sul piano accademico, di un cammino di fede che ha saputo nutrirsi pure delle peggiori ore passate sull’orlo del baratro. Prima di entrare nel vivo, mi preme una domanda: come si sente? «Credo di poter dire che sono molto felice. È un grande dono della vita. È un bel momento, molto bello». Dalla sua liberazione, scrive di continuo. Una testimonianza degli anni di prigionia, adesso questo romanzo. Vede la scrittura come un cammino interiore? «È la prima volta che mi viene chiesto in tal modo. Ha ben visto le cose. Sì, la scrittura è uno straordinario cammino verso se stessi. Non un’evasione. E non per forza una terapia. Nel mio caso, è un’attività, ludica all’inizio, ma che diventa essenziale, essendo uno strumento meraviglioso per conoscersi». Una novità? «Ho sempre scritto. Ma non ne avevo mai fatto il mio centro di gravità». E poi c’è la lettura. Dicono che lei divori intere biblioteche. «Ciò nasce in modo analogo. La lettura è un’intimità con un autore, un’intimità rara e perfetta. Non ci sono interferenze. È un grande momento di comunicazione». Ha un piccolo rituale? «Amo leggere distesa comodamente, con buona luce, in un luogo intimo. Mi occorrono bevande, cioccolato, la coperta ai piedi». Adesso è dunque una romanziera, ben lontana dall’etichetta di 'ex ostaggio'… «Penso che questo romanzo cristallizzi in effetti per me una nuova tappa. È giunto il momento di parlare degli altri e non più di sé». Lei si descrive ancora come «un uccello ferito» al quale hanno rubato un decimo di vita. Come ha addomesticato il fardello? «Ho fatto il lavoro interiore necessario. Mi sento liberata dal passato. Non mi ossessiona e non ne soffro. Ma resta un punto delicato: anche nel pieno della felicità, può bastare una frase per far balenare una scena di prigionia. Come se un’onda riportasse a riva cose sepolte, resti di sofferenze passate. Sono talvolta così reali, quasi tangibili. Non si possono schivare. Ma non per questo la vita è meno bella». Un eroe del suo romanzo, Theo, è roso dalla voglia di vendetta, mentre la sua alter ego, Julia, sceglie di perdonare i propri carnefici. Per essere felici, occorre perdonare i nemici? E l’ha fatto con i suoi carcerieri? «Sì, totalmente. Credo di poter dire che la fede mi ha aiutata ad assumere questa scelta. Nella Bibbia, c’è un passaggio molto rivelatore: sulla croce, Cristo ha subìto ogni tipo di umiliazione, ma pronuncia queste parole: 'Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno'. Sì, occorre superare il proprio dolore per comprendere l’orrore che vive chi ci sta facendo del male». Cosa intende? «Quando abbiamo noi stessi peccato e ci siamo scoperti feriti dal peso della colpa, possiamo dirci, il giorno in cui diventiamo vittime: 'Che fortuna essere da questa parte'. Presso colui che causa il male, c’è una forma d’ignoranza terribile, non solo sulla natura del male che procura, ma pure sul modo in cui questo male gli rovina l’anima. La coscienza del peso del peccato dell’altro suscita la nostra compassione». Questa riflessione pare già abitare in lei… «Sì, perché il perdono è essenziale. Implica grande umiltà e innanzitutto la possibilità di perdonare a se stessi. Con il perdono, ci offriamo un gran lusso: non essere più in balia dei sentimenti di vendetta, di odio e di amarezza che l’altro può produrre in noi». Ne ha preso coscienza presto? «Sei anni dopo la mia cattura. Mi trovavo in una situazione drammatica. Sfinita, fisicamente a terra. Ero bersaglio di ogni orrore. Ed ero giunta persino ad accettare la morte come una liberazione quasi desiderabile. Un giorno, mi ritrovo davanti al capo della guerriglia, colui che mi aveva fatto consapevolmente e con zelo così tanto male. È di fronte a me e sento che cerca d’ingannarmi con la possibilità scintillante di un contatto con la mia famiglia, mentre in realtà agisce per strapparmi una prova di vita e continuare così a perpetrare il suo crimine…». E cos’è accaduto? «Questo faccia a faccia ha risvegliato in me un odio profondo. Ero profondamente disgustata. E ho scoperto in me una capacità d’odio pronta a negare la stessa umanità dell’altro. Potevo concepire un assassinio come un fatto lieto. E quest’idea mi ha spaventato. Ho temuto di finire in quest’allegria dell’uccisione. Rischiavo di divenire come loro. Stavo precipitando. Allora, mi sono chiesta: chi vuoi essere? Una che può calpestare tutto, violare tutte le cose essenziali, un essere mosso dall’istinto? E ho compreso che il perdono era indispensabile per conservare l’umanità». Dopo la liberazione, alcuni volevano fare di lei un’icona, mentre altri si dedicavano a guastare quest’immagine virtuosa. Ne ha sofferto? «È difficile trasformarsi in qualcuno che non riconosciamo. In un personaggio virtuale con il nostro nome e volto, ma diverso da noi. Non si può controllare tutto. Ma è importante non lasciarsi sfigurare dalle idee che gli altri possono avere di noi». Quasi una nuova prigionia… «Assolutamente. Non ci si può rimettere in questione di continuo: l’ho fatto davvero? Era un bene o un male? Dobbiamo conservare la fiducia in ciò che siamo, dirci che nessuno è perfetto e che soltanto con le nostre azioni potremo mostrare chi siamo davvero». Torniamo al romanzo: mi ha colpito per la sua dimensione fantastica, questo modo di considerare la porzione inafferrabile del mondo. Un modo di evocare Dio? «Esattamente. È una scelta narrativa allo scopo di poter parlare del mondo invisibile, in un’epoca ossessionata dalle scienze, che si è da sola tagliata le ali. Ho voluto creare uno spazio per quanto di spirituale abbiamo negato». E dietro l’inafferrabile, chi vede? «Dio, evidentemente. Ma ognuno potrà mettere ciò che vuole. Quello che conta è comprendere che l’uomo è molto più di una miscela di atomi. E ciò basta ad aprire una porta. Mi torna in mente questa canzone amatissima, Stairway to Heaven  [dei Led Zeppelin, ndr].  Questa 'Scala verso il Paradiso' è fatta di tantissimi dubbi, uno per ogni gradino. Ma accettare ciò che è sconosciuto è un inizio di certezza». Tutti ricordano il rosario che teneva in mano alla liberazione, la preghiera sulla pista d’atterraggio, il suo incontro col Papa… Pare, adesso, che il vulcano si sia placato. «Occorre saper essere discreti nella fede. Non sono molto portata per lanciare prediche. Mi mette a disagio e se si va oltre, ciò diventa dell’esibizionismo che fa uso di Dio. Mi risulta difficile parlare di Dio, avendo troppo rispetto. È una relazione intima, segreta e al posto di lunghi discorsi, esprimiamo la fede con l’amore dato agli altri. Ne parlo meno, ma è molto, molto forte». Da tre anni, lei passa splendide giornate a Oxford, dove segue dei corsi di teologia… «Avevo bisogno di comprendere. Da duemila anni, la vita di Cristo c’interpella e ci fa riflettere. Ci sono esseri straordinari che mi nutrono, come san Paolo, Karl Barth, Jacques Maritain. Era essenziale avvicinarmi a questi maestri, con molta umiltà e anche indipendenza. Mi aiuta a comprendere perché credo. Forse è un sintomo di maturità». Nella giungla, lei ha scoperto Dio. È lo stesso di quello che la accompagna oggi? «Nella giungla, ho incontrato innanzitutto la persona di Cristo. La sua incarnazione mi facilita le cose. Sarebbe per me molto difficile vivere con un Dio filosofico». E Maria? «È per me un essere che vive, presente. Ma non è Dio. È da questo lato qui dell’umanità, ci aiuta a comprenderlo». Come si rivolge a Dio? «Come a qualcuno che amo. Il suo nome sarà sempre accostato a un aggettivo d’amore, come quando mi rivolgo ai miei figli. Con molta emozione. Per me, ha un volto, una voce». Ha dei luoghi prediletti dove vivere la fede? «Il mio letto, sempre. Riposando, mentre il mondo si dilegua attorno a me, trovo momenti d’intimità con la Vergine e suo Figlio. Un momento per parlare. Fare con loro il bilancio della giornata. Meditare significa osservare la vita quotidiana attraverso quello che potrebbe essere lo sguardo di Cristo su di noi. Molta compassione, dunque, anche dell’esigenza». Mi hanno detto che prepara una tesi di dottorato sulla teologia della liberazione. La sua sete di giustizia non si allontana… «Deve essere sempre presente. La teologia della liberazione pone una domanda fondamentale: che fare della propria fede? Se la mia spiritualità mi rende insensibile al mondo, allora ho forse compreso male il messaggio. La chiamata di Cristo è una chiamata per una forma d’impegno, direi persino che implica una posizione politica». Dove si trovano ormai le sue radici? «La Francia è il nido in cui mi sento sicura. La Colombia risuona in me molto fortemente. Ma in fondo, mi sento a casa dovunque, se sono accanto a persone care». Lei ha ripreso una vita di famiglia con sua madre e i suoi figli, ormai adulti. Come ristabilire il legame affettivo? «Era la mia priorità. Avevano bisogno che mi dedicassi a loro. Avevano paura. Hanno pagato un caro prezzo per il mio impegno politico e dunque non ho voluto riprenderlo. La ricostruzione della relazione con mia madre è stata più naturale. I miei figli, invece, li ho lasciati piccoli e ritrovati adulti. Ho dovuto cominciare a 'ri-conoscerli', comprendere chi erano, ricomporre l’archivio di tutti questi anni, ricostituire certi momenti importanti della loro vita, le loro scelte e amicizie, oltre alle cicatrici lasciate dalla mia prigionia. Per poi ritrovarmi in un ruolo di madre, diverso dal precedente». Perdoni la curiosità, ma nessun nipotino? «No, ma mia figlia si è appena sposata. Allora, chissà!». Questi anni rubati hanno acuito il suo desiderio di assaporare quanto resta da vivere? «Sì, è molto importante aver coscienza del miracolo di esistere. E coltivare per questo la gratitudine. Non dobbiamo dire no alla felicità a cui Cristo ci chiama». (traduzione di Daniele Zappalà; per gentile concessione del mensile francese 'Panorama')