Agorà

L'inedito. Così Antonio Paolucci raccontava le meraviglie di Siena

Antonio Paolucci lunedì 5 febbraio 2024

Antonio Paolucci nel 2015

Per gentile concessione dell’Arcidiocesi di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino e l’Opera della Metropolitana di Siena pubblichiamo il testo della lectio magistralis che Antonio Paolucci, scomparso ieri a 84 anni, ha tenuto nel 2017 in piazza Duomo.

Siena. È talmente orgogliosa del proprio ruolo da non accettare supremazie e interferenze da parte di nessuno, pensate cosa deve essere stato per i senesi l’anno 1458 (annus mirabilis il 1458) perché in quell’anno un cittadino senese viene fatto Papa, Enea Silvio Piccolomini: grande aristocratico, grande intellettuale, grande politico e diplomatico; era stato Nunzio Apostolico in Boemia, in Germania e in Inghilterra, per poi venir consacrato Papa di Roma. Un figlio di Siena, un suo cittadino eminente assume la più importante carica religiosa del mondo cristiano.
È facile immaginare che in quell’anno mirabile 1458 i senesi dovevano essere ben contenti, felici che un loro concittadino illustre fosse arrivato a un ruolo così eccelso, e infatti nell’Archivio di Stato di Siena si trova la biccherna dell’anno 1458, nella cui copertina, a opera di Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, è rappresentata l’incoronazione papale del cardinale Enea Silvio Piccolomini (le biccherne sono i libri contabili della città stato, raccolgono documenti preziosi, fondamentali per la vita finanziaria, economica, ma anche e soprattutto politica della città). È proprio per questa ragione che i documenti custoditi dai libri di biccherna dovevano avere un decoro particolare, di solito venivano chiamati gli artisti migliori – Giovanni di Paolo, Benvenuto di Giovanni, Matteo di Giovanni, il Beccafumi – per dipingerne la copertina.
Ebbene la biccherna dell’anno 1458 è dipinta da Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta e raffigura l’incoronazione di papa Pio II. Il Piccolomini è seduto in trono e due cardinali uno a destra e uno a sinistra gli mettono sul capo il triregno, il simbolo della triplice potestà del Papa: il Papa regna sul Paradiso, sulla terra e sull’Inferno, per questo sono tre le corone del triregno nella simbologia antica. Sotto il trono del Papa incoronato c’è una veduta di Siena vista di profilo, con la Torre del Mangia, con il Duomo, con le torri e le case assiepate, con il giro delle mura e delle porte urbiche. Ma subito troviamo un esempio della raffinata laicità senese, in alto a sinistra il Vecchietta ha dipinto l’aquila dell’impero, perché Siena è una repubblica di legittimazione imperiale, non papale. Il messaggio politico che è contenuto in questa pittura del Vecchietta è molto chiaro: se qualcuno pensasse che adesso che un senese è diventato papa, noi Repubblica di Siena libera città-stato ci adeguiamo alla politica della Santa Sede, ebbene questo qualcuno si sbaglia, perché Siena è orgogliosa della sua autonomia, un’autonomia politica che l’aquila del Sacro Romano Imperatore protegge e difende. Questo è il messaggio politico che è presente nella biccherna del Vecchietta che sta nell’Archivio di Stato. Tradotto in parole più semplici è come dire: noi senesi siamo buoni cattolici, siamo devoti figli di Santa Chiesa, siamo ovviamente orgogliosi e felici che un nostro concittadino sia stato fatto Papa, però la politica è un’altra cosa e l’autonomia della repubblica è qualcosa che non può essere condizionata da nessuna interferenza esterna, neanche da un Papa senese. Così ragionavano i senesi nei grandi secoli della loro storia.

Palazzo Pubblico e il Buon Governo

Del resto i senesi avevano un’idea incredibilmente moderna della politica e del governo. Entrando nel Palazzo Pubblico troviamo gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti, uno dei grandi artisti del Pantheon pittorico italiano. Ebbene, nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico laddove Ambrogio Lorenzetti ha dipinto i suoi affreschi del Buon Governo, negli anni trenta del Trecento, Siena e Ambrogio Lorenzetti hanno affermato e messo in figura un concetto e un’idea straordinariamente moderna, l’idea cioè dell’invisibilità, della pratica irrilevanza di chi concretamente gestisce il potere e, per contro, la perfetta didattica visibilità degli effetti del loro governo. Non è tanto importante sapere chi ci comanda, chi ci governa – vuol dire Ambrogio Lorenzetti negli affreschi della Sala dei Nove in Palazzo Pubblico –, non è importante quello, non è importante conoscere le facce e i nomi di quelli che ci governano. L’importante è vedere gli effetti che la loro amministrazione porta nella città.
Solo la città che noi abitiamo può dirci se le strade sono sicure e le campagne ben coltivate, se l’economia tira, se la città è prospera, operosa e felice, se i malfattori finiscono sulla forca. Questo dice Ambrogio Lorenzetti negli affreschi del Buon Governo e allora significa che il governo è buono; se succede il contrario, se la corruzione e l’anarchia dominano sulla città, se i partiti si dilaniano fra di loro, se trionfa la malavita, allora invece vuol dire che il governo è cattivo.
È davvero moderna questa riflessione sul governo che fa Ambrogio Lorenzetti negli anni trenta del Trecento. Oggi siamo abituati a dare una faccia, un nome a chi ci governa, ma invece bisognerebbe non badare tanto ai nomi e alle facce, come suggerisce Ambrogio Lorenzetti, dimostrando una straordinaria modernità. Gli affreschi del Buon Governo sono un capolavoro di arte, ma anche di dottrina politica. Non è importante sapere chi sta al governo, a quale partito appartiene, se è di destra o di sinistra, l’importante è vedere come funziona la città, se le cose vanno come devono andare. Allora il governo è buono.
Infatti entrando nella Sala dei Nove (il cui nome fa riferimento ai nove che rappresentavano la magistratura elettiva, che nella Repubblica oligarchica senese tenevano protempore il potere esecutivo), si vedrà che i Signori Nove praticamente non si vedono, hanno una minima visibilità, non interessano, interessa piuttosto la città di Siena sotto la loro amministrazione e gli affreschi sono uno specchio, un monito di buona o di cattiva politica: questa era la modernità politica dell’antica Siena.

La bellezza abbagliante del Duomo

Si entra nel Duomo dei senesi come si entra in un reliquiario lucente di marmi policromi, di bronzi, di vetri colorati.
Tutti ricordiamo la grande vetrata di Duccio di Buoninsegna che sta dentro la Cattedrale senese. Varcando la soglia si capisce che il Duomo è insieme un reliquiario e una foresta di simboli, incamminandosi verso il presbiterio che sta in fondo, vediamo che all’inizio della navata centrale sul pavimento c’è intarsiata un’iscrizione bellissima: Castissimum Virginis templum caste memento ingredi. È in latino, ma un latino così facile che quasi non ha bisogno di traduzione: “Nel castissimo tempio dedicato alla Vergine Maria Regina del Cielo e regina di Siena, tu visitatore ricordati di entrarci con l’animo puro, con i pensieri puliti”, perché questo esige il Castissimum Virginis templum, e tutto intorno c’è uno straordinario tappeto di pietra, uno straordinario alfabeto basico della sapienza universale che per fortuna è stato reso visibile per iniziativa dell’Opera del Duomo e di Opera Laboratori. C’è tutto nel pavimento intarsiato del Duomo di Siena: ci sono le età dell’uomo, ci sono le diverse sorti della fortuna, c’è la sapienza degli antichi, c’è Ermete Trismegisto, quello che portava con sé la immemoriale, ancestrale sapienza degli antichi egizi, ci sono le profetesse, le sibille: la sibilla delfica, la sibilla partica, la Sibilla Cumana e sotto di lei c’è persino una nota filologica sempre in latino che: cuius meminit Vergilius, “di cui parla Virgilio” nella celebre quarta egloga, dove si narra di un tempo felice con la pace distesa su tutta la terra. Quella quarta egloga dagli esegeti cristiani era stata interpretata come prefigurazione di Cristo, del tempo felice della redenzione e, in questi mosaici pavimentali, dove sono all’opera i più grandi artisti senesi – Neroccio, Matteo di Govanni, Benvenuto di Giovanni, Pinturicchio –, ci sono le storie che prefigurano il Nuovo Testamento, le storie dell’Antico Testamento che prefigurano il Nuovo, il sacrificio di Isacco, Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia di fronte al popolo dell’esodo, la vittoria di Giuditta ebrea su Oloferne, nemico del popolo di Israele, la storia di Erode, quella di Davide e di Assalonne, del figlio ribelle Assalonne e del padre Davide, la Strage degli Innocenti di Matteo di Giovanni. Un incredibile groviglio di figure incastrate l’una nell’altra, una stilizzazione iperbolica che di fronte ai dipinti e alle figurazioni intarsiate di Matteo di Giovanni, Cesare Brandi diceva che le sue opere “quasi sollecitano la cortesia di una traduzione in persiano o in cinese”, tanto è sofisticato, raffinato, criptico nel suo modo di figurare.
Entrando nel Duomo dei senesi ci troviamo davanti a capolavori assoluti, come per esempio il Battista di Donatello, eseguito nei suoi anni tardi, databile al 1457, oppure il celebre pulpito di Nicola Pisano, scolpito con l’aiuto del figlio Giovanni e di Arnolfo di Cambio, il vertice supremo della scultura gotica italiana.

L'orgoglio di una identità forte

C’è però una cosa dentro al Duomo che soltanto a Siena è possibile trovare, una cosa che ci dà l’idea della spregiudicatezza intellettuale, della libertà mentale dei senesi e in nessuna chiesa del mondo vi è una cosa del genere. Siete mai stati nella Libreria Piccolomini in fondo al Duomo a sinistra? Questa Libreria, si chiama appunto così, che il cardinale Tedeschini Piccolomini, nipote per parte di madre di Pio II, e poi lui stesso papa col nome di Pio III, ha voluto dedicare alla memoria del suo illustre parente presenta le storie della vita di Enea Silvio Piccolomini dipinte da Pinturicchio chiamato per decorare le pareti con i suoi viaggi in Europa, la preparazione della crociata, la sua incoronazione pontificia. E pure vi è un gruppo scultoreo straordinario nella Libreria Piccolomini: accanto agli intarsi, ai mobili, ai codici miniati di Liberale da Verona, di Girolamo da Cremona, di Sano di Pietro, su un piedistallo di adeguata eleganza ci sono tre giovani donne, tre bellissime donne, le Tre Grazie, di una bellezza seduttiva e melodiosa, ma non sono figure dell’Antico Testamento e nemmeno del Nuovo, vengono dal mondo classico, dalla mitologia greco-romana, sono le Tre Grazie, tre fanciulle infinitamente e teneramente belle. Soltanto il giovane Raffaello saprà mettere in figura la melodiosa, tenera bellezza nella tavoletta con le Tre Grazie che dipinse quando aveva 24-25 anni e che si trova in Francia nel Museo di Chantilly.
Ma vi immaginate una città che nel suo Duomo, consacrato alla Madonna che di Siena è Regina, mette tre donne nude che vengono dal mondo classico? Non è forse questo un segno della libertà mentale, della spregiudicatezza dei senesi che si unisce, senza contraddirlo, al loro pragmatismo politico e alla loro profonda religiosità? Tutte cose che si tengono insieme e che fanno appunto l’identità di questo popolo, così come un altro aspetto, l’orgoglio dei senesi. Lo capite dal Duomo, questo Duomo che doveva essere tre volte più grande di quello che attualmente è, l’attuale pezzo di Duomo doveva essere il transetto di una Cattedrale più grande di cui sono rimasti soltanto gli avanzi, i ruderi, il Facciatone.
Quando l’architetto Lorenzo Maitani si presenta ai notabili della città dicendo di voler costruire un Duomo, una cattedrale che ha da essere pulcra, magna et magnifica – ossia bella, grande e magnifica –, si intende che deve essere magnifica la cattedrale dei senesi, perché bella non basta, deve surclassare la Santa Maria del Fiore dei fiorentini. Ecco l’orgoglio senese che si colloca nel momento zenitale della storia politica e economica di questa città della prima metà del Trecento, quando Siena, ultima piazza bancaria sulla via Francigena, sulla Cassia prima di arrivare a Roma, era diventata un centro finanziario che attirava denaro, affari e capitali dall’Italia e dall’Europa. In questo momento magico della loro economia e della loro storia i senesi si inventano l’idea di una chiesa così grande che deve far scomparire, annullare, schiacciare la basilica dei fiorentini; poi le cose andarono in modo del tutto imprevisto, ci furono la crisi economica e la grande peste del 1348, mutò radicalmente il quadro politico e quindi l’immenso Duomo che doveva oscurare quello dei fiorentini non si fece. È in questo stesso luogo che possiamo infatti capire questo altro tratto distintivo della storia del carattere dell’anima dei senesi, ovvero il loro orgoglio.

Santa Maria della Scala, l'ospedale geniale

Vi è infine, e questo ce lo consegna l’Ospedale di Santa Maria della Scala, l’aspetto caritatevole dei senesi. L’Ospedale di Santa Maria della Scala, finanziato dal Comune, ingranditosi nei secoli, ricco di molti lasciti, di molte proprietà, era diventato il complesso sanitario più avanzato, più prestigioso e più celebrato in Italia e in Europa.
All’interno dell’Ospedale di Santa Maria della Scala il genio caritatevole dei senesi si traduce in bellezza artistica. Una volta entrati nel Pellegrinaio di Santa Maria della Scala, fermiamoci di fronte agli affreschi di Domenico di Bartolo di Bartolo, di Priamo della Quercia, di Lorenzo Vecchietta e pensiamo ai malati che vivevano la loro infermità, la loro malattia ai piedi di tanta bellezza. Il ruolo terapeutico della bellezza, quello di cui tanto parlano i medici oggi, lo hanno inventato i senesi seicento anni fa, nel loro Ospedale di Santa Maria della Scala. Un ospedale totalmente collegato al Duomo che, come dicono i documenti, si chiama Santa Maria della Scala perché sta ante gradus Ecclesiae maioris, sta davanti ai gradini della chiesa più grande, ovvero del Duomo. Quindi è un rapporto simbiotico quello tra Santa Maria della Scala e il Duomo.
In questo breve excursus vengono fuori i fondamentali caratteri distintivi della civiltà senese. Abbiamo visto la religiosità senese, la devozione alla Vergine Maria fatta regina della repubblica, la laicità dei senesi, orgogliosi di avere un Papa loro concittadino, ma anche pronti ad affermare la loro autonomia da qualunque ingerenza esterna, fosse pure quella di un Papa concittadino ed amico. Abbiamo inoltre visto la libertà mentale, la spregiudicatezza intellettuale dei senesi che mettono nel loro Duomo tre donne nude tra le più belle che mai si siano viste e che non vengono dall’Antico o dal Nuovo Testamento ma dalla mitografia pagana.
Poi abbiamo considerato l’orgoglio dei senesi che li spinge nella folle e disastrosa avventura del Duomo più grande di quello dei fiorentini. E infine, a conclusione, abbiamo ricordato la vocazione caritatevole di questa città, una città che ha inventato seicento anni fa la terapia della bellezza: si guarisce meglio e si guarisce prima, se stiamo in mezzo a delle cose belle. Questo i senesi lo avevano capito.