Viva Shakespeare! E viva anche Cervantes! Ma perché la festa di domani sia completa manca un terzo urrà, da riservare all’Inga
Garcilaso, come si firmava lui, o Garcilaso de la Vega detto
el Inca, come preferiscono i moderni. Distinzione comunque opportuna, visto che il primo scrittore latinoamericano fu anche omonimo del poeta lirico castigliano Garcilaso de la Vega (1510-1536), con il quale era peraltro imparentato, e nemmeno troppo alla lontana. Storia straordinaria, quella dell’Inca, romanzesca in sé e giustamente trasformata in romanzo da una scrittrice italiana di casa in America del Sud, Laura Pariani: uno dei suoi primi libri,
La spada e la luna (Sellerio, 1995), si ispira alla vicenda biografica di Garcilaso, considerato come personaggio emblematico nel passaggio – temporale e geografico – tra vecchio e nuovo mondo. Mai come in questo caso per mettere ordine occorre partire dalla fine, e cioè al 23 aprile 1616. È il giorno in cui a Madrid muore Miguel de Cervantes e, a guardare il calendario, è anche quello in cui William Shakespeare muore a Stratford-upon-Avon. Come ormai sappiamo, la coincidenza è causata da un effetto ottico, dato che nell’Inghilterra protestante vale ancora il calendario giuliano, da più di quarant’anni soppiantato dal gregoriano nel mondo cattolico. Secondo il computo in vigore in Spagna, dunque, l’autore di
Amleto si spegne il 3 maggio, ma l’apparente identità di data è troppo bella per lasciarsela scappare. È il motivo per cui vent’anni fa, nel 1996, l’Unesco ha proclamato il 23 aprile Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore. Per via della morte congiunta di Shakespeare e Cervantes, certo. Ma nella notte tra il 22 e il 23 aprile 1616 – come correttamente ricorda l’Unesco – a Cordova, in Spagna, muore l’Inca Garcilaso. Da un lato ci sono le due superpotenze dell’epoca, Inghilterra e Spagna, che cessano le ostilità per piangere i rispettivi poeti nazionali, dall’altro l’Europa si apre alle voci che arrivano dai possedimenti d’oltremare. L’Inca ha fatto da apripista, dopo di lui sono venuti i classici José Hernandez (l’autore del poema epico argentino-
Martín Fierro), Machado de Assis e Horacio Quiroga, i Nobel Pablo Neruda, Gabriel García Márquez e Mario Vargas Llosa, gli incommensurabili José Lezama Lima, Roberto Bolaño e, in splendida solitudine, il maestro Jorge Luis Borges. Elenco meno che indiziario, d’accordo, ognuno aggiunga i nomi che crede. Questa però è la galassia, e di questa galassia il centro è l’Inca. Sistemato il finale, riprendiamo dall’inizio. Garcilaso nasce a Cuzco, capitale del Perù precolombiano, il 12 aprile 1539 da padre spagnolo, Sebastián Garcilaso de la Vega y Vargas, e dalla principessa inca Isabel Suárez Chimpu Ocllo. A dispetto del nome altisonante, il
conquistador è un modesto uomo d’armi che si destreggia come può fra i tumulti del Nuovo Mondo, stringendo e sciogliendo alleanze militari, ma anche spezzando al momento opportuno il legame – mai sancito dal matrimonio – con la nobildonna indigena da cui sono nati Garcilaso e la sorella Leonor. Il futuro scrittore si stabilisce in Spagna nel 1561, per ottemperare alle volontà testamentarie del padre. Non tornerà mai più in America e la sua vita, d’ora in poi, sarà quella del tipico intellettuale dell’epoca, compresa l’assunzione degli ordini minori. Al momento dell’arrivo in Europa, in ogni caso, l’Inca ha già maturato quella che – mutuando una fortunata espressione dell’antropologia contemporanea – si potrebbe definire la sua “coscienza meticcia”. Se nella
Brevissima relazione della distruzione delle Indie (1542) il vescovo domenicano Bartolomé de las Casas aveva denunciato la disumanità del trattamento che i colonizzatori avevano riservato agli indigeni, nelle sue opere l’Inca Garcilaso rovescia la prospettiva, assumendo il punto di vista di una civiltà che ha autonomamente raggiunto un elevato grado di raffinatezza culturale e di complessità sociale. Per quanto «idolatri», come lui stesso li qualifica, gli inca sarebbero addirittura giunti a intuire in una delle loro principali divinità, lo spirito creatore Pachacámac, un’immagine o
figura dello stesso Dio cristiano (per inciso: in modo forse interessato lo scrittore nega con fermezza la pratica del sacrificio umano in età incaica). Dopo aver dedicato nel 1605
La Florida dell’Incaall’impresa di Hernando de Soto (l’edizione italiana, curata da Aldo Albonico per San Paolo, risale al 1996), il cadetto di don Sebastián si applica con assiduità sempre maggiore alla composizione dei grandiosi
Commentari reali degli Inca , la cui prima parte esce nel 1609, seguita nel 1617 dalla pubblicazione postuma della seconda, conosciuta come
Storia generale del Perù. Si tratta di un capolavoro assoluto della prosa spagnola, oltre che di un’inesauribile miniera di notazioni storiche e antropologiche (la prima sezione copre il periodo incaico, la seconda prende le mosse dall’arrivo degli spagnoli). La diffusione di questi testi nel nostro Paese si deve alla caparbietà e all’erudizione di Francesco Saba Sardi (1922-2012), singolare personalità di viaggiatore e polemista che firmò la traduzione sia dei
Commentari (Rusconi, 1977, ora disponibile nei Tascabili Bompiani) sia della
Storia generale (Rizzoli, 2001). Un’impresa che, insieme con la già ricordata edizione San Paolo della
Florida dell’Inca, avrebbe forse meritato un’organica riproposta in occasione dell’anniversario di domani, pur comprensibilmente dominato dall’attenzione riservata agli altri due grandissimi della situazione, i gemelli allergici Cervantes e Shakespeare. Il legame dell’Inca con l’Italia è del resto profondo, e precede di molto l’interesse dimostrato da autori come Saba Sardi e Laura Pariani. Una delle primissime prove letterarie di questo classico venuto dal Perù fu infatti una versione dei
Dialoghi d’amore di Leone Ebreo, trattato fra i più influenti nell’ambito del neoplatonismo rinascimentale. In quale lingua sia stata originariamente scritta l’opera non è chiaro, di sicuro c’è soltanto che l’Inca la tradusse dall’italiano.