Agorà

Africa. In Etiopia la speranza corre anche via blog

Paolo Lambruschi giovedì 5 dicembre 2019

È la voce critica della nuova Etiopia, quella che cerca di restare unita e sconfiggere il virus dei nazionalismi e del conflitto etnico. Ma era la voce critica anche della vecchia Etiopia, quella che solo un anno mezzo fa, prima che arrivasse al potere il premier Abiy Ahmed, Nobel per la pace del 2019, incarcerava le voci scomode. Come Befeqadu Hailu, 39 anni, che ha pagato con anni di carcere il suo credo nella libertà di espressione. Appartiene a una nuova generazione di giornalisti e scrittori attivisti africani da noi davvero poco nota, ma che sempre più spesso usano i social per denunciare regimi corrotti e antidemocratici per aggirare le censure dei media tradizionali. In Italia ha partecipato al recente festival del giornalismo a Ferrara.

Befeqadu Hailu ha vinto nel 2015 il premio per la libertà di stampa del comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj). È anche corrispondente del servizio amarico per la radio pubblica tedesca, direttore esecutivo di Card (Center for advancement of rights and democracy). Inoltre continua a pubblicare articoli scomodi sul suo blog in inglese e amarico.

Hailu racconta l’Etiopia in cerca di democrazia a un bivio cruciale, unità o guerre etniche che a noi europei possono ricordare quella dei Balcani negli anni 90. Un clima tanto teso che per frenare l’ondata di violenze etniche nel paese ai primi di novembre, il governo etiope ha approvato una legge che vieta la diffusione di fake news e dell’odio in Rete. I social sono stati infatti usati come mezzo per incitare alle violenze tra comunità che stanno causando decine di migliaia di sfollati nel Paese. Ora sarà il Parlamento a votare la legge per il via libera definitivo.

Befeqadu Hailu, Befeqe per i followers, si definisce informatico di formazione e scrittore per vocazione. Diventa noto al grande pubblico nel 2012 quando un suo racconto vince il premio Bill Burt per la letteratura africana. «Ma ho cominciato come ricercatore alla St. Mary’s University etiope, poi mi sono evoluto come attivista per la democrazia specializzandomi sulla libertà di espressione nei media tradizionali e nei social media. Nel 2012 con 8 colleghi ho fondato il collettivo di blogger “Zona 9” che ha vinto numerosi premi ed ed è diventato una piattaforma per l’attivismo. Per quello che che scrivevo in “Zona 9” sui partiti e sui politici sono stato imprigionato quattro volte, una addirittura per diciotto mesi. In tutto sono stato in carcere per avere espresso le mie opinioni 596 giorni senza mai una sentenza di colpevolezza».

Perché ha scelto di fare il blogger?

«Perché questo è il mio Paese e il nostro gruppo non poteva tacere davanti all’ingiustizia. È molto semplice, abbiamo scelto di fare il nostro dovere».

L’Etiopia dopo il Nobel ad Abiy ha destato speranze e curiosità nel mondo, ma cosa sta cambiando davvero?

«I cambiamenti attuali hanno un sacco di prospettive positive così come hanno conseguenze negative. La politica di liberalizzazione degli spazi espressivi ha creato una transizione verso la democrazia. Ma di conseguenza, come in ogni Paese che ha liberato lo spazio civile dalla repressione, sono esplose le voci silenziate e così molti conflitti interetnici sono esplosi. Questo, se non viene gestito saggiamente, può trasformare il Paese in un centro che moltiplica le crisi in un ambiente già instabile come quello del Corno d’Africa».

Dopo le riforme di Abiy c’è stato un aumento delle fake news che hanno alimentato l’odio in Rete. Non c’è, come dicono i critici del premio Nobel per la pace, troppa libertà oggi in Etiopia?

«Non credo che ci sia troppa libertà. È che troppe domande sono state represse con la forza per molti decenni. E ora tutte le persone che hanno delle questioni da porre vogliono le risposte in fretta. Questo ha dato spazio a politici opportunisti che vogliono accedere al potere e alle risorse in nome della rappresentanza delle domande della gente. Parecchi di questi opportunisti politici stanno usando la violenza e la disinformazione sui media tradizionali e sui social per mobilitare la gioventù più povera e disperata in cerca di una via d’uscita».

Cosa pensa del primo ministro?

«Credo che meriti il Nobel perché ha fatto la pace con l’Eritrea rispettando le regole del diritto internazionale e applicando l’accordo di pace del 2001 di Algeri. Ora deve lavorare duramente per guadagnarselo. Deve cercare rimedi pacifici per calmare le tensioni locali. Spero che il Nobel lo motivi».

Chi è il suo pubblico, i suoi followers?

«Sono poche decine di migliaia, giovani, attivisti, giornalisti e le comunità internazionali».

Cosa prevede per l’Etiopia al crocevia? Unità o conflitti etnici?

«Avremo tempi difficili, ma alla fine sono convinto che li supereremo. Non ci sono due opzioni tra cui scegliere, solo unità».

È possible una narrazione diversa dell’Africa nei media europei?

«I media europei usano comunemente stereotipi quando parlano dei Paesi africani. Ci vogliono raffigurare sempre in conflitto, immersi in una crescente povertà e in una ignoranza quasi rampante. Le nostre società e noi stessi siamo invece molto più complessi. Abbiamo una stupefacente capacità di risoluzione dei conflitti, un benessere sociale e una saggezza che sono risorse importanti e peculiari per la vita che viviamo».