AVVENTURE. In bici dalla Siberia a Londra
Se pensi alla Siberia, anche solo di sorvolarla in aereo, il pensiero si ghiaccia all’istante, perché anche il più temerario dei siberiani vi sussurrerà rabbrividendo: «Holodna... Zeema», “freddo... inverno”. Immaginate allora di attraversarla tutta pedalando in sella a una bicicletta. Impossibile? «Niente è impossibile», vi risponderà Rob Lilwall, un giovane professore di Geografia - «frustrato e sottopagato» (tutto il mondo è Paese) - nei college londinesi che a un certo punto decide di frenare la sua vita e di compiere l’impresa, o meglio quello che considera il suo «pellegrinaggio». Accoglie l’invito-provocazione dell’amico, sin dai tempi dell’università, a Edimburgo. il caro vecchio Al e partono insieme. In bici dalla Siberia a casa (Ediciclo) è diventato così il libro-diario (caso editoriale in Inghilterra) avventuroso e avvincente, di un viaggio cominciato nel settembre 2004 e che sarebbe dovuto durare al massimo l’arco del classico anno sabbatico e invece tra emozioni intensissime, momenti di profonda spiritualità e con a ruota l’inseguimento costante della paura di non farcela e di morire, si è protratto fino all’ottobre del 2007. Così, pedalando per 56mila chilometri, Rob è partito per la Siberia che aveva 29 anni per fare ritorno a Londra a 32. Con 8mila sterline in tasca «i risparmi di una vita», si è messo in sella alla sua fida “Alanis”, la bicicletta ribattezzata come la cantante, «la Morissette», ed è partito da quella che Colin Thuborn descrive come «l’ultima misteriosa frontiera. Il posto da dove non ritornerai». Con la benedizione di un monaco americano, padre Mike, Rob e Al hanno preso il via da Magadan, il paradiso minerario, diventato l’inferno per i martiri del totalitarismo sovietico che qui venivano spediti ai lavori forzati. Prime pedalate sulla “Strada delle ossa”, dove si è consumato il destino crudele che ha inghiottito nei gulag 10, forse 50 milioni di vittime delle purghe di Stalin. Un pezzo di storia indelebile, e l’inizio di un percorso al limite della sopportazione fisica e psicologica, in cui Lilwall si è ritrovato a coprire un minimo di 42 chilometri quotidiani (un massimo di 169 km in un giorno), parlando da solo («le strade con Al si separarono in Giappone») invocando e pregando continuamente Dio, affinché lo avesse sostenuto nell’incredibile sfida. «Coltivavo la speranza che il viaggio mi avrebbe fatto maturare come persona e come cristiano... Ma ero anche pienamente cosciente che la fede non mi avrebbe reso immune dai pericoli». Rob e Al sono passati indenni persino nel glaciale villaggio di Oymyakon: «Nel 1919 era entrato nel libro dei record per aver registrato la temperatura di -71,2 gradi», annota nel suo diario Rob che in un giorno, «da meno 36 gradi», ha visto per cinque volte forare la ruota di Alanis (157 forature in tutto il viaggio). Una volta risistemati i copertoni scivolavano via leggeri per le strade innevate e i sentieri sterrati e tortuosi del Caucaso. Sudore, fatica, e silenzi interminabili, interrotti dagli odori intensi di carne di cavallo arrostita e fiumi di vodka guadati fino ai villaggi degli yucat. «Gli yucat come i caucasici, non ci chiesero mai soldi per l’aiuto che ci davano, e alcune volte cercarono perfino di offrirci denaro e abiti di pelliccia prima che ripartissimo». Più di duecento le persone che hanno generosamente ospitato Lilwall (la maggior parte delle notti trascorse in tenda) nel suo cammino, in cui con orgoglio nella scheda delle statistiche annovera: «21 le lingue in cui ho imparato a dire ciao». Una volta attraversata la Siberia, ha imparato anche a riconoscere il volto dell’amore. L’ha scovato ad Honk Kong, negli occhi di Christine, una ragazza cinese che è diventata sua moglie e con la quale oltre alla vita oggi condivide l’impegno umanitario. A cominciare dal sostegno agli angeli dalla faccia sporca, i bambini poveri di Manila. È arrivato fino alle Filippine certo. E sempre con una semplice bicicletta, acquistata dieci anni prima, si è spinto molto più in là.
Non si è fermato neppure dinanzi all’Oceano, lo ha attraversato in nave ed è sbarcato in Papua Nuova Guinea per continuare a pedalare. «Devo avvisarti che viaggiare in Papua Nuova Guinea può essere piuttosto pericoloso, mi hanno minacciato a mano armata e derubato 16 volte e mi sono trovato in mezzo a una sparatoria tra tribù in guerra che usavano fucili M16...», lo aveva avvertito via e-mail un missionario prima che approdasse a Jayapura. Per le strade più impervie di Wewak, Rob ha incontrato padre Lawrence che resiste «schivando le pallottole». Ascetismo cristiano che si fonde con quello tibetano, in cui Lilwall ha appreso che «nella pratica della tolleranza, il nemico è il miglior insegnante». Alzandosi dal sellino ha scalato i 4mila metri, per fermarsi giusto il tempo di una sosta («non restavo più di due-tre giorni nello stesso luogo») in un monastero in cui i monaci gli hanno ceduto volentieri il loro letto, e quelli in segno di autentica ospitalità hanno dormito per terra. Lilwall ha assaporato il gusto intenso della tolleranza e dell’accoglienza. Un miracolo nel mondo dei conflitti globali, interrotto a tratti solo nelle tappe “belliche”, a Kabul e poi a Islamabad, quando padre Tom gli narrava della dura realtà dei cristiani perseguitati: «Il Pakistan sembra passare da una crisi all’altra. Adesso è legata ai talebani, ma dopo di questa ce ne sarà un’altra».
Considerazione amara, come quel bicchiere d’acqua negato sulla via del ritorno, nell’occidentalissima Taizè, dalla scortese proprietaria di un bar. «Volevo dirle di tutti i luoghi in cui ero stato e della gentilezza delle tante persone che avevo incontrato: dalla Russia alle Filippine, dall’India al Tibet, all’Afghanistan e all’Iran e invece in Europa, dove la gente era così ricca, mi veniva rifiutata dell’acqua». Il bicchiere di Rob si è riempito comunque e nella bisaccia di Alanis ha raccolto 23mila sterline che serviranno a sostenere le attività benefiche dell’associazione “Viva” - together for children - , in soccorso dei bambini del terzo mondo. Accavallettata la bici, ora il suo viaggio prosegue, a piedi. Con l’aiuto di Dio, Rob in questo momento è sulle cime cinesi, padrone del suo tempo, con il cuore colmo d’amore e pacificato, si ferma e osserva lo scorrere delle acque dello Yangtze, il fiume azzurro.